La cultura classica occidentale si basa su due testi fondamentali: l’Odissea, il poema che narra le vicende riguardanti l’eroe Odisseo, Ulisse in latino, che fa ritorno ad Itaca e l’Iliade, il poema ambientato ai tempi della guerra di Troia. Tra i due ho sempre preferito quest’ultima.
Sarà perché, seppur scritta dai vincitori, la storia dell’Iliade, ha la capacità di tramandare anche le ragioni dei vinti, sarà perché pur parlando di un monumento alla guerra traspare un chiaro desiderio di pace, sarà perché, va bene gli eroi, ma l’Iliade ha la capacità di essere un racconto popolare dove anche i personaggi secondari – come, ad esempio, Sarpedonte – hanno il loro spazio.
Eppure, in questo periodo, soprattutto la nostra generazione, dovrebbe rileggere l’Odissea.
Il “libro” si apre (canto I-IV) con il viaggio di Telemaco, figlio di Ulisse, ormai ventenne, alla ricerca del padre lontano dalla sua patria da vent’anni. Telemaco, spinto da Atena a smettere di attendere: “prima di partire si recò nella stanza per andare a dormire, con molti pensieri nel cuore. E là per tutta la notte, avvolto in morbida lana, Telemaco pensava in cuor suo al viaggio che gli aveva suggerito di compiere la dea Atena”.
Ma chi è Telemaco? Telemaco è il “tertium datur”, la terza via possibile tra il nichilismo esistenziale di Edipo, il figlio che uccide suo padre per sostituirsi nell’amore della madre, e Narciso, il figlio dello specchio, incapace di guardare oltre sé stesso chiuso tra le sue mura egoiste.
Telemaco è il figlio giusto. Massimo Recalcati, psicoanalista che più di tutti ha analizzato la figura del figlio di Ulisse, ci ricorda che essere figli significa essere eredi. Telemaco quindi è l’erede giusto, colui che tiene lo sguardo aperto sull’orizzonte del mare, che guarda avanti senza voltarsi.
Così in un tempo dove mancano i padri, cioè senza quella capacità di indicare una direzione che sia di garanzia per le generazioni future bisogna riscoprirsi Telemaco. In altre parole, lasciare le comodità e gli alibi trasformando i blocchi in destinazioni.
E invece figli dell’happy hour, quella fotografia dei nostri tempi, tempi in cui si dice tutto e il contrario di tutto, tempi in cui ci si cura molto l’immagine e poco la sostanza, tempi di luoghi comuni e status symbol massificati, non interrompiamo l’attesa. Aspettiamo l’eredità, perché ci spetta, senza provare a riconquistarla.
Se i trentenni raccontati dal regista Gabriele Muccino ne “L’ultimo bacio” avevano sogni, paure e certezze pronte a sgretolarsi sotto i colpi della sensuale innocenza della diciottenne Francesca, dieci anni dopo quei trentenni – ormai prossimi ai 40 – se nel sequel del film “Baciami ancora” cercano di ricucire, di salvare il salvabile nella realtà somigliano ancora terribilmente ai primi con i sogni (ancora) mezzi aperti citando il Liga.
Più che a Telemaco – al quale bisognerebbe (ri)cominciare ad ispirarsi – somigliano a quei personaggi raccontati da Beckett nel suo Aspettando Godot che restano paralizzati nell’attesa di essere salvati. Più che scegliere puntano a farsi scegliere.
Recalcati scrive “Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse”, serve invece ricercare la capacità di sfidare il mare, non di fotografarne soltanto i tramonti per postarli su Instagram. Di lasciare le certezze alle spalle. Sfidare il mare che nel mondo di Omero significa sfidare la morte, cioè in una sola parola: rischiare.