Il caso di Malika, nel capitolo relativo alle donazioni di denaro dopo la sua cacciata di casa, ha creato l’ennesimo casus in cui l’opinione pubblica nostrana ha potuto esercitare il suo legittimo diritto di critica, ma sbagliando completamente bersaglio per quella che è la mia opinione. Sia ben chiaro: non voglio giustificare la ragazza per un uso che in moltə considerano disinvolto dei soldi ricevuti. Perché anche io, come molte delle persone che si sono indignate per l’acquisto di una macchina e di un cane di razza – per me gli animali vanno presi dai canili o dalla strada – avrei gestito le spese in modo diverso. Il problema, per quanto mi riguarda, non è l’uso delle donazioni, ma lo sguardo moralizzatore che è stato gettato su tutta la vicenda. Pericoloso, nei termini di ciò che io chiamo una “democrazia della narrazione”. Andiamo per ordine.
I soldi dati a Malika sono andati a una privata cittadina
La raccolta di fondi serviva a risollevare le sorti di una ragazza cacciata da casa sua. Questo è quanto si legge nella petizione on line: “aiutate mia cugina a costruirsi un futuro”. Né più, né meno. I soldi donati, dunque, dovevano andare a lei. Non a un ente benefico, non a un ufficio pubblico, non alla chiesa, non ad associazioni di categoria. No. A una privata cittadina. E i soldi, una volta arrivati a lei, sono andati a chi ne doveva fare uso. Per cui se avete donato a Malika, e i soldi sono arrivati alla ragazza, la missione è compiuta. L’uso di quel denaro, nel momento in cui viene consegnato alla destinataria della petizione, è di tipo privato così come è altrettanto privato il soggetto che ne ha beneficiato.
Se fuori dal supermercato regalo un euro a un mendicante, non pretendo di sapere cosa farà di quel denaro. Che, nel momento in cui viene messo nel piattino, smette di essere mio. Se comprerà del vino scadente o un panino al prosciutto, esporre la sua scelta a un giudizio morale non rientra nelle mie facoltà. Perché dietro quel giudizio c’è un tentativo di controllo. E quindi, l’esibizione di una forma di potere da parte di chi ha sostanze e una vita autonoma di cui può liberamente disporre. E lo scopo della beneficenza non è quello di produrre giudizi morali, ma di aiutare chi ne ha bisogno. E se sei buttata fuori di casa, senza vestiti, senza mezzi di sussistenza, sei in stato di bisogno.
L’etica degli acquisti è da stato etico
La storia, in verità, è vecchia. Già ai tempi del reddito di cittadinanza si levarono vibranti polemiche su ciò che era consentito o non consentito acquistare. Ma uno Stato che stabilisce un’etica degli acquisti è uno stato, di fatto, etico. E la storia ci insegna che quando la res publica mette il naso negli affari privati dellə cittadinə si apre una china pericolosa, per cui se oggi posso guardare dentro il tuo portafogli, domani potrò intromettermi in quello che succede nella tua camera da letto o nel tuo tempo libero. E vale anche quando a essere pubblico è il nostro sguardo.
Il principio per cui, di fronte a uno stato di difficoltà economica, la persona aiutata ha il dovere a esibire una moralità che in moltə non sono in grado di assicurare a se stessə potrebbe e dovrebbe valere, come principio assoluto, in tutte le situazioni in cui si presenta una situazione di bisogno. Se sei precariə, i pochi soldi che ottieni non dovrebbero essere sperperati in nulla che non sia strettamente necessario alla sopravvivenza. E anche l’acquisto delle sigarette sarebbe scelta non etica, secondo questo principio. Tuttə noi, che viviamo nell’incertezza a cui ci espone il sistema pensionistico attuale, non dovremmo che conservare denaro per accendere fondi pensione. Andare al bar, mangiare una pizza, vedere un film al cinema rientrerebbero in automatico nella categoria del superfluo. Dello sperpero.
Una beneficenza che declina in carità
Trovo debole l’opposizione di chi direbbe che tfr, assegni di disoccupazione e altri interventi di sostegno sono comunque “soldi tuoi”. Anche i soldi donati appartengono a chi li ha ricevuti. E non accetto nemmeno il discorso per cui averli donati ha esposto il soggetto donante a un sacrificio. Secondo lo stesso principio – non spendi soldi che non puoi permetterti di “sperperare” – non avrebbe dovuto fare quell’atto di beneficenza.
Al netto del cortocircuito, c’è poi la questione di un diffuso pietismo di massa che concepisce la beneficenza solo nella misura in cui lə destinatariə permanga in condizioni di svantaggio. Questa è la spiacevole sensazione che se ne ricava, a leggere commenti quali: “poteva prendere una macchina da mille euro”, “poteva andare a vivere in una città più economica”, “poteva prendere un appartamento più periferico” e via discorrendo. Sembra, insomma, che la colpa di Malika sia quella di non essere più una reietta. E che le condizioni che le assicuravano rispetto e comprensione rientrassero nella pretesa che quella situazione di svantaggio rimanesse immutata. Cosa che fa della beneficenza un mero atto di carità. Che fa in modo che l’asimmetria rimanga immutata, ma ci assicura una poderosa pacca sulla spalla della nostra coscienza collettiva.
Malika, il diritto di sbagliare e le zone d’ombra
Ancora: Malika è una ragazza di vent’anni, proveniente da un contesto sociale che tuttə abbiamo imparato a conoscere quando abbiamo sentito, inorridendo, le parole della madre. Ci siamo chiestə che tipo di esempio avrà potuto interiorizzare in un contesto siffatto? Ci siamo domandatə cosa avremmo fatto noi, al suo posto, a vent’anni? Davvero abbiamo l’arroganza di credere che soggetti terzi, per il semplice fatto di essere svantaggiati, non abbiamo il diritto all’errore e financo alla “volgarità” dell’esibizionismo, in un’epoca in cui i selfie sostituiscono i contenuti e i tweet gli argomenti (anche politici)? E con ciò non voglio giustificare le bugie, le ritrattazioni e le numerose zone d’ombra che questo storia porta con sé, ma contestualizzarle.
Mille sono le perplessità – e tutte legittime – che questo caso porta con sé. Ma l’esibizione di un moralismo sociale che poi all’atto pratico rimane un esercizio di stile fine a se stesso è un pericoloso precedente nella creazione di una sensibilità di massa che pretende di controllare la vita privata. Come quando si chiede alle coppie gay di essere più stabili, per avere il diritto di sposarsi. O alle donne di non essere troppo frivole, se non vogliono le mani addosso. Il principio è identico: questionare sulla moralità del soggetto svantaggiato, indagandone la vita e le abitudini private. E, per quel che mi riguarda, è una deriva pericolosa che andrebbe sempre evitata.