TantopremessoParalimpiadi: perché mantenerle ancora separate?

Partono il 24 agosto i Giochi paralimpici di Tokio. Un grande evento sportivo di rilevanza planetaria che, tuttavia, può nascondere, non troppo paradossalmente, una nota discriminatoria per gli atleti con disabilità.

Si terranno a Tokio, dal 24 agosto al 5 settembre, i XVI Giochi paralimpici estivi: sarà la seconda volta che la il Giappone ospiterà i Giochi paralimpici dopo l’edizione del 1964, che seguiva i primi giochi paralimpici ufficiali a Roma nel 1960. Nati come Giochi internazionali di Stoke Mandeville, dal nome della cittadina inglese del Buckinghamshire che ospitava gare per veterani della Seconda Guerra Mondiale con danni alla colonna vertebrale o varie menomazioni, i Giochi paralimpici erano stati fortemente sostenuti dal neurochirurgo polacco naturalizzato inglese Ludwig Guttmann (qui l’affascinante storia del movimento paralimpico). Nel 1988, con le Olimpiadi di Seul, si affermò il principio di far disputare le Paralimpiadi nella medesima città delle Olimpiadi, sebbene solo dal 2001 siano abbinate sistematicamente ai Giochi olimpici, grazie ad un accordo tra il Comitato Olimpico Internazionale e il Comitato Paralimpico Internazionale, il quale garantisce che la città candidata ad ospitare le Olimpiadi debba organizzare anche i Giochi paralimpici. Le Paralimpiadi, soprattutto dopo il grande successo dell’edizione londinese del 2012, che aveva promosso l’evento con impegno e convinzione, diffondendo un video che aveva riscosso grandissima attenzione dai media, sono un appuntamento di grande interesse per appassionati di tutto il mondo, arrivando oggi a comprendere ben 22 specialità. È, inoltre, un importante riconoscimento del ruolo e delle potenzialità delle persone con disabilità nelle società contemporanee, considerando la dimensione sportiva una delle leve più significative ai fini della piena inclusione e partecipazione ai diversi aspetti della vita quotidiana: per immergersi nel clima delle Paralimpiadi e nelle storie dei paratleti, la lettura obbligata è “Paralimpici” di Claudio Arrigoni, giornalista ed esperto di Giochi, arrivato ormai alla terza edizione (Hoepli, 2016). Non troppo paradossalmente, tuttavia, le Paralimpiadi possono rappresentare un’ennesima occasione di separazione e di mancata inclusione per le persone con disabilità. Capiamo perché. La Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 2006, ratificata in Italia con legge n. 18 del 2009, riporta all’articolo 30 che, al fine di consentire alle persone con disabilità di partecipare su base di uguaglianza con gli altri alle attività ricreative, agli svaghi e allo sport, gli Stati Parti adottano, fra l’altro, misure adeguate a incoraggiare e promuovere la partecipazione più estesa possibile delle persone con disabilità alle attività sportive ordinarie a tutti i livelli, garantendo che le persone con disabilità abbiano la possibilità di organizzare, sviluppare e partecipare ad attività sportive e ricreative specifiche e incoraggiando, a tal fine, la messa a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, di adeguati mezzi di istruzione, formazione e risorse. Le disposizioni in materia di sport discendono da quelle più ampie che la Convenzione individua quali obblighi generali a carico degli Stati firmatari, come, ad esempio, garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità. Ebbene, se la ratio generale della Convenzione – e della riflessione più avanzata a livello internazionale in materia – è quella di assicurare il pieno ed eguale godimento di diritti e opportunità per le persone con disabilità al pari di tutte le altre persone (“su base di uguaglianza con gli altri”, ripete più e più volte il Trattato), viene da chiedersi perché le Paralimpiadi debbano tenersi in un secondo momento rispetto ai Giochi “ordinari”. Non si tratta di negare l’oggettiva diversità di condizioni degli atleti, naturalmente: è in gioco, tuttavia, come recita l’articolo 3 della Convenzione, il rispetto per la differenza e l’accettazione delle persone con disabilità come parte della diversità umana e dell’umanità stessa. Se la disabilità e una mera condizione della persona umana, come ci dice l’OMS nel suo Rapporto mondiale sulla disabilità del 2011, e se è innegabile la necessità di assicurare che tutte le persone, con o senza disabilità possano godere di pari dignità e pari diritti, la separazione temporale dei giochi mantiene, indubitabilmente, un retrogusto discriminatorio. Si dirà: una manifestazione ad hoc permette una maggiore attenzione del pubblico e dei media e assicura, al contrario, il pieno protagonismo degli atleti con disabilità. È possibile. Tuttavia, tale apparente vantaggio stride fortemente con il limpido monito della Convezione a evitare ogni qualsivoglia diverso trattamento delle persone con disabilità, compatibilmente con possibili soluzioni di accomodamento (si parla di accomodamento ragionevole). Il leitmotiv della Convenzione delle Nazioni Unite è quello di assicurare alle persone con disabilità pari condizioni rispetto a tutti gli altri esseri umani: prendere un bus o un taxi, andare a un cinema o al ristorante, godere di cure o di frequentare gli studi in condizioni di parità con le altre persone. Ogni ingiustificata disparità di trattamento, che si basi sulla condizione di disabilità, è individuata dalla Convenzione come ovvia discriminazione. Nulla impedisce, in soldoni, che le gare di atleti senza disabilità e con disabilità si svolgano nel corso di un’unica manifestazione, nello spirito inclusivo e di piena partecipazione che caratterizza, peraltro, l’afflato olimpico, evitando posizionamenti di serie B per le Paralimpiadi. Non casualmente, d’altronde, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel consegnare il tricolore lo scorso 23 giugno agli atleti e paratleti al Palazzo del Quirinale, ha voluto sottolineare “la comunanza di prospettive e di intenti tra Olimpiadi e Paralimpiadi”, significando, così, la pari dignità dell’impegno degli atleti con e senza disabilità. L’importante è partecipare, senza dubbio. Facciamolo allora tutti assieme, magari in occasione delle prossime Olimpiadi Invernali di Milano e Cortina del 2026: perché no?

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