PromemoriaTransizione digitale è un parolone

La sfarinatura del portale sanitario della regione Lazio è solo l’ultima di una serie di falle digitali osservate in questi mesi. Indimenticabile fu il crollo  del sito dell’INPS in occasione della richiesta di ristori o bonus sostegno “una tantum”, così come non si contano più i disastri durante i click days nei vari portali (scolastici, amministrazioni regionali) con scene di cittadini svegli nel cuore della notte per iniziare una pratica, attaccati allo schermo con su scritto  “attendere prego”. 

Parlare quindi di transizione digitale, oggi, per un’infrastruttura italiana ancora in fase preistorica, mi pare francamente un parolone. Se poi si aggiunge che le banche dati sono diverse a seconda del territorio o il livello di amministrazione, i siti sono poco funzionali e le risorse tecniche impiegate malpagate non stupisce la vulnerabilità del sistema. 

Sicuramente la crisi pandemica ha cambiato radicalmente il ruolo e la percezione della digitalizzazione nelle nostre società e ne ha accelerato il ritmo. Le tecnologie digitali sono diventate senza dubbio imprescindibili per il mantenimento della vita sociale ed economica e saranno uno dei fattori essenziali del Recovery Fund per una rinnovata società post Covid-19.  Ma è altrettanto evidente che il livello di “cultura digitale” nel nostro paese – vuoi anche per la sua condizione demografica – è mediocre sia sul piano della fruizione (gli strumenti) che su quello della produzione (contenuti e soluzione problemi). 

L’UE ha cercato di darne una definizione di competenze digitali  descrivendole come “abilità di base nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione: l’uso del computer per reperire, valutare, conservare, produrre, presentare e scambiare informazioni nonché per comunicare e partecipare a reti collaborative tramite Internet.

Vista così allora la nostra è una delle situazioni peggiori in ambito europeo e OCSE che il Covid-19 ha solo aggravato.

Un punto problematico è una sorta di sproporzione tra consumo (presenza in rete) e skills acquisite. Gli ultimi dati – per fare un esempio emblematico – ci parlano di una presenza dalle 2 alle 4 ore delle persone sui social, e tuttavia moltissimi di questi utenti  non sanno ancora scrivere nemmeno  una mail con regole di base  (inserire correttamente l’oggetto della mail, trovare l’indirizzo del destinatario nella rubrica sincronizzata, inserire allegati etc.). Per non parlare del rapporto (pessimo) dei cittadini con il piattaforma SPID,  la gestione maldestra di password e pin, la perdita di dati sensibili. 

Guardando poi  al mondo dei ragazzi, 1 giovane su 3  non possiede le competenze adeguate  per affrontare il mondo on-life, privandosi delle opportunità non quantificabili che un utilizzo consapevole della rete può offrire oggi e rischiando di farsi trovare  impreparato di fronte alle nuove esigenze del mercato del lavoro domani.  In definitiva, se dal punto di vista dell’offerta  9 lavori su 10 richiederanno esclusivamente competenze digitali, in termini di domanda il 19 per cento dei cittadini europei possiede competenze nulle quindi è tagliato fuori a monte.  Andrebbe perciò riscritta l’agenda digitale del nostro paese con uno sguardo costante all’inclusione giovanile nei processi socio-economici futuri così ben focalizzato dal meeting Youth20 (Y20) 

I dati ci suggeriscono anche di combattere un pressapochismo che si traduce nella pratica in un atteggiamento a volte svogliato e a mio parere incomprensibile: se pensiamo ad esempio al green pass non si capisce perchè molti gestori riescano a pubblicare contenuti di marketing su più pagine social simultaneamente per poi dichiarare  i non saper (o voler) verificare i  clienti in entrata, quando bastano meno di 30 secondi con l’App Verifica C19 attraverso la quale, inquadrando il qr code, si risolverebbe in radice il problema, scongiurando l’ansia del controllo sulle mascherine ai tavoli e dedicarsi ad un servizio più sereno. Praticamente l’uovo di colombo ma si preferisce una polemica al giorno fine a se stessa. 

Per cui al danno dell’incompetenza si aggiunge anche la beffa dell’indolenza.

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