Dopo un poco dignitoso tira e molla nei corridoi della diplomazia, finalmente, anche grazie ad un troppo tardo ripensamento di Obama, il comando delle operazioni militari in Libia passa sotto controllo Nato, pur con i prevedibili distinguo dei francesi, non disponibili a lasciare la leadership di questa “invincibile armada” di volenterosi, bizzarra definizione di una alleanza che serve a tentare di camuffare il fatto che fino ad oggi non è esistito un vero coordinamento soprattutto politico tra i governi interessati.
Infatti, mentre Sarkozy giorni fa enunciava ai microfoni che gli aerei francesi erano pronti ad intervenire, i suoi Mirage erano già in volo e attaccavano una colonna di carri lealisti che minacciava Bengasi, senza previo accordo con i suoi alleati. Il presidente francese si è assunto l’onere di iniziare questa guerra, forzando tutti gli altri a seguirlo in una impresa che quasi nessuno voleva, Germania in primis ma anche, con sfumature diverse, gli Usa e la stessa Italia. Come amici che in una rissa di strada si lanciano a difendere uno dei loro che ha iniziato a menare le mani, anche noi ci troviamo nella condizione di dover continuare quanto non avremmo voluto cominciare, cercando perlomeno di limitare i danni, soprattutto quelli al nostro interesse nazionale. È cosa evidente che in questa vicenda l’Italia è il Paese europeo che più ha da perdere, comunque vadano le cose. In Libia ci sono giacimenti Eni da cui ricaviamo ben un quarto del petrolio che consumiamo e siamo, alla fine dei conti, il paese europeo più prossimo fisicamente ed economicamente ad una zona di guerra, con tutto quello che può conseguirne. Eppure, a Parigi, a porte chiuse, Francia, Inghilterra e Stati Uniti si sono riuniti a discutere di intervento militare senza curarsi di avere al tavolo gli europei che in questa vicenda rischiano di più.
Non è una questione di protagonismo, non ci interessa essere le primedonne di una bellicosa coalizione di pugnaci potenze occidentali, semplicemente stupisce che a parlare di Libia non ci fosse il paese europeo che meglio la conosce: noi. La storia recente, con gli intensissimi rapporti commerciali Italia/Libia ci racconta che siamo il Paese occidentale meglio introdotto nella vita economica e politica di quel paese, ma la storia più antica ci rivela che l’Italia è tra tutti, la nazione che meglio conosce quel territorio, non fosse altro perché larga parte delle infrastrutture ancora in uso furono costruite in epoca coloniale fascista, mentre il sistema stradale libico è praticamente ancora quello costruito da Balbo e benissimo disegnato sulle mappe del Regio Esercito. Così il resto d’Europa ha dovuto galoppare al seguito dei francesi, con il consueto immancabile sprone degli Inglesi, che, come tori davanti al drappo rosso, partono lancia in resta ogni volta che c’è la possibilità di sparare.
Se l’obiettivo era sbarazzarsi di Gheddafi, confortati dalle vicende storiche precedenti, restiamo dell’avviso che per far cadere i governi i bombardamenti aerei non sono l’opzione più saggia. Gli Stati Uniti hanno scritto il manuale su come abbattere governi senza neanche apparire, in Sud America il loro zampino era dietro ad ogni golpe dagli anni ’60 ai ’90 e comunque in questa particolare vicenda sarebbe stato assai più saggio, prima dei caccia, fornire agli insorti la legittimità del riconoscimento internazionale, denari e un sistema di intelligence e propaganda (psy-op) mirato a minare la saldezza dei lealisti, se necessario semplicemente “comprando” gli uomini chiave attorno al Rais (tutti sempre sensibili al denaro).
Nulla di questo è stato fatto e ora ci ritroviamo in un ginepraio dove non è chiaro chi, pur col cappello Nato, deve comandare, con i soliti inglesi che addirittura ipotizzano lo sbarco di reparti a terra, nonostante i rivoltosi abbiano più e più volte dichiarato che nessun occidentale deve operare sul terreno: i soldati cristiani non sono graditi. Se violiamo questa condizione, getteremmo le basi per una possibile insurrezione islamica, al cui interno elementi contigui ad Al Qaeda non attendono altro che una mossa di questo genere per coalizzare attorno a temi fondamentalisti e pan-arabi il malcontento e il disagio del Maghreb in funzione anti-occidentale. Ci tocca limitare l’intervento a raid aerei la cui utilità è perduta senza il seguito di una efficace azione a terra. Le guerre le vince la fanteria e noi la fanteria non dobbiamo schierarla, facciamo almeno in modo che i fanti anti-gheddafi abbiano ciò che fino ad ora non abbiamo saputo fornire: denari, credibilità, legittimazione, assistenza umanitaria, status diplomatico di unici interlocutori con la comunità internazionale e un embargo efficiente che metta in seria difficoltà il Rais.
Quanto alla guida delle operazioni, la catena di comando è più breve e assai meno articolata di quella afghana, che prevede un gamma di operazioni molto più complessa. Qui dobbiamo “solo” rendere impossibili le operazioni dei lealisti attraverso l’utilizzo di una componente aerea e navale che ha alle sue spalle una capacità di coordinamento notevole, acquisita in molti anni di esercitazioni multinazionali in ambito Nato. A questo punto chi siede al vertice di questa piramide gerarchica è cosa secondaria, l’importante è che il prode Monsieur Sarkozy si convinca che questa non è la sua personalissima guerra, da lui scatenata anche per guadagnare consenso elettorale in patria, prece l’appoggio dei gruppi petroliferi francesi e delle loro mire sui giacimenti gestiti dall’Eni. Operazione fallita miseramente, visto che il suo consenso resta ai minimi storici e che il voto non ha premiato la sua nouvelle vague bellicista.
*Docente di Strategia, Università di Trieste