Per alcuni giornali il 2010 è stato drammatico. Italia Oggi ha perso oltre il 16% (negli ultimi tre anni circa il 30%). Il Secolo XIX è andato indietro di oltre il 15% (-27% in tre anni), L’Unità la lasciato per strada quasi il 15%. Complessivamente, analizzando le vendite di 56 giornali censiti da Ads, il calo è stato del 5,1%, con una perdita secca di 250 mila copie. Se si considerano i 26 quotidiani che ancora superano le 50 mila copie il calo percentuale è leggermente più alto: meno 6,2% (Clicca sulla tabella pubblicata in questo link: nel raffronto mancano ancora i dati del Fatto quotidiano, che nel 2010, secondo Ads, ha venduto 77.705 copie al giorno).
I big dell’editoria italiana non sono andati meglio della media. In un anno il Corriere della Sera ha perso l’8,7%, La Repubblica l’8%, il Sole 24 Ore l’8,6%. E nell’ultimo triennio questi tre giornali hanno subito un calo di vendite rispettivamente del 24,4%, 28,9% e 22,6%. Come dire che i tre principali giornali italiani in tre anni hanno perso circa una copia su quattro. Andando avanti con questo ritmo basterebbero solo altri nove anni per ridurre le copie vendute a zero.
E l’emorragia delle vendite è accompagnata da un calo parallelo della pubblicità. Dopo l’annus horribilis 2009, nel 2010 gli investimenti pubblicitari hanno rialzato la testa con una crescita del 3,8% (fonte: Nielsen), ma questo aumento, dopo la grande gelata dei due anni precedenti, non ha premiato la carta stampata. La pubblicità è salita del 6% per le tv e del 20,1% per Internet, mentre nella carta stampata ha continuato la sua caduta (-4,3%). In particolare, nell’industria dei quotidiani a pagamento la flessione è stata del 2%.
I primi due mesi del 2011 sono andati peggio. Secondo l’Osservatorio Stampa Fcp a gennaio e febbraio il calo pubblicitario nella carta stampata è stato del 5,6% rispetto agli stessi mesi del 2010. I quotidiani a pagamento hanno segnato meno 6,2%.
Assistiamo a due fenomeni che vanno avanti parallelamente: ogni anno la stampa perde un pezzetto del proprio mercato e contemporaneamente vede invecchiare progressivamente il proprio pubblico. La spirale “meno copie vendute – meno pubblicità”, è aggravata da due processi ineluttabili: da una parte la televisione continua ad arricchire la propria offerta (il successo di Sky è stata una piccola catastrofe per la carta stampata); dall’altra, grazie alla possibilità di targhetizzare gli investimenti pubblicitari in modo sempre più mirato sul web, gli investimenti si disperdono in mille rivoli rendendo sempre più marginale la vecchia editoria. Ci sono vie di uscita?
Nei giorni scorsi negli Stati Uniti è stato pubblicato The State of The News Media 2011, del Pew Research Center’s Project for Excellence in Journalism. Si tratta di un rapporto annuale, pubblicato dal 2004, che costituisce un appuntamento importante per capire la crisi e l’evoluzione dei giornali.
E il declino della carta stampata americana, nell’immagine scattata da questo Rapporto, ricorda da vicino la situazione italiana. I dati si assomigliano. Nel 2010 sia il fatturato sia le vendite dei quotidiani Usa sono ancora in discesa (-6,3 % e – 5% rispettivamente, praticamente come nel nostro paese), ma il calo (come da noi) è rallentato rispetto all’anno precedente (fatturato -26%, vendite -10%). Anche negli Stati Uniti cresce il pubblico dei giornali online, ed esattamente come da noi ancora si fatica a capire come trasformare la lettura online in fatturato: «C’è ormai consenso sul fatto che la pubblicità online non riuscirà mai a sostenere l’industria delle news», si legge nel Rapporto: «Mentre le vecchie fonti di reddito continuano a declinare, la ricerca di nuovi canali di finanziamento diventa più urgente».
Per molti anni i giornali generalisti hanno rinunciato a far pagare i contenuti pubblicati online perché temevano che, sbarrando le porte del proprio sito ai non abbonati, la perdita di fatturato pubblicitario (dovuta al minor numero di lettori) non sarebbe stata ripagata dagli abbonamenti. Dopo anni di ricerche il New York Times ha cambiato rotta e sta cercando di far quadrare il cerchio lasciando libero accesso ai “lettori leggeri” (quelli che leggono meno venti articoli al mese), chiedendo invece un abbonamento (15 dollari al mese per la sola lettura sul web, 20 con l’aggiunta dell’Ipad) a chi supera questa soglia.
È una sperimentazione (avviata una settimana fa) a cui il mondo dell’editoria sta guardando con attenzione. Se avesse successo, uno spiraglio di ottimismo potrebbe aprirsi per altri giornali generalisti. Per ora infatti solo i giornali economico-finanziari (Wall Street Journal, Financial Times ed Economist) sono riusciti a realizzare un soddisfacente numero di abbonamenti online. Ma il New York Times non è un giornale generalista qualunque. Quello che offre ai lettori, per varietà di informazioni e standard di qualità, non ha eguali al mondo. Se anche il New York Times fosse premiato con un buon numero di abbonamenti online, quanti altri giornali potrebbero sperare di replicare il suo successo? Quante testate italiane sono in grado di offrire ai lettori contenuti così originali e attendibili da indurre molti lettori a pagare per il giornale il formato digitale? Dice il rapporto del Pew Research: «Gli esperimenti di pagamento online sono importanti per stabilire il principio che per avere accesso a contenuti costosi da produrre è necessario pagare. Ma è prevedibile che a breve scadenza i fatturati realizzati in questo modo non cambieranno radicalmente il quadro della situazione. E resta comunque la possibilità che il traffico dei lettori e il fatturato pubblicitario possano calare sensibilmente».
La speranza che molti lettori possano decidere di abbonarsi ai giornali online nasce soprattutto dal successo di nuove piattaforme tecnologiche, soprattutto gli e-reader, l’iPhone e l’iPad che stanno aprendo nuovi mercati. Si tratta di strumenti che si vanno diffondendo con estrema rapidità e che potrebbero progressivamente soppiantare la vecchia carta nelle abitudini collettive di lettura. Quando sono davanti a un iPad gli utenti sembrano più disposti a metter mano alla carta di credito di quanto lo siano quando usano un pc. Certo, si tratta ancora di ipotesi da sperimentare.
Ma non ci si può illudere che siano le tecnologie a togliere la castagne dal fuoco agli editori. E a questo proposito il rapporto di Pew Research fa un’osservazione interessante. I nuovi amministratori delegati delle società editoriali, negli Stati Uniti, vengono sempre più spesso scelti fuori dall’editoria e sono persone che non hanno alcun background sul mondo dei media. «L’idea è che anni di immersione nella cultura dei giornali lavori contro una rapida e creativa trasformazione del settore nel mondo digitale», scrive il Rapporto. Come dire che chi è troppo innamorato della vecchia forma giornale, e della pur nobile idea che i giornalisti hanno di se stessi è destinato al fallimento. Le rivoluzioni hanno bisogno di innovatori, non di restauratori.
Si tratta di una notazione che deve far riflettere, anche se è destinata a fare infuriare molti anziani giornalisti. Tutte le innovazioni che stanno mettendo a soqquadro il mondo dei giornali, e che hanno a che fare sia con il modo con cui la informazione viene distribuita (Google) o usata come «merce di scambio sociale» (Facebook, Twitter…), sono nate all’esterno dei giornali. Tutte le iniziative commerciali che hanno scavato la terra sotto i piedi della carta stampata sono state inventate fuori dal mondo dei media. L’ultima si chiama Groupon, ed è ampiamente citata dallo State of the Media News 2011: si tratta di un’azienda (lanciata nel dicembre 2008, ma Google ha già offerto sei miliardi di dollari) che ogni giorno invia una email ai suoi soci (50 milioni nel mondo) per offerte speciali di qualunque merce, dai corsi di yoga alle vacanze in una Spa. Negli Stati Uniti Groupon si sta alleando con numerose testate giornalistiche, specie a livello locale, nelle piccole città e nei quartieri, dove la possibilità di interagire con gli utenti necessita di nuove strategie di interazione. È solo uno dei mille esempi che si sperimentano per ridare ai giornali quella centralità econxomica (oltreché culturale) che hanno perduto.
Fino a ieri il modello di business su cui campavano i giornali (almeno quelli che non sono protetti dal finanziamento pubblico) era basata su due voci: le vendite e la pubblicità. Oggi cresce la convinzione che fonti di reddito debbano essere molteplici, relative ai diversi strumenti tecnologici di interazione e a nuove modalità di contatto con il pubblico. È straordinario come negli Stati Uniti questa necessità di sperimentare nuovi modeli di business per salvare i giornali sia ormai diventato un problema collettivo. Nella convinzione che l’informazione sia un bene pubblico. Al contrario in Italia, dove pure il declino della carta stampata segue un percorso pressoché identico a quello Usa, questo resta un argomento per iniziati.