Dovendo testimoniare dello stato di prostrazione politica di Silvio Berlusconi, conviene ragionare per immagini molto diverse tra loro, mettendo in fila la cinquina migliore di questo scorcio finale di campagna elettorale.
Nell’ordine: 1) la testa di Alessandro Sallusti, direttore del “Giornale”, offerta a Formigoni per salvare i rapporti con CL; 2) la performance televisiva a Porta a Porta, che ha ricordato gli ultimi cento metri di Dorando Pietri alla maratona di Londra nei Giochi Olimpici del 1908; 3) il concerto del “terrone” D’Alessio che salta per intemperanza leghista; 4) le paroline dolci sul regime dei giudici sussurrate a Obama per la serie “presidenti su Marte”; 5) la questione dei ministeri da “nordizzare”, la cui sintesi massima è il Quirinale a Milano! (Calderoli dixit, Corriere della Sera).
Se avete retto la cinquina, almeno nella sua stramba consequenzialità, ora cercheremo di darle un senso più compiuto, scovando il filo rosso che la tiene insieme. Chi ha amato Silvio Berlusconi in tutti questi anni, parimenti chi lo ha odiato, o più semplicemente chi ha provato il libero esercizio della critica, oggi si pone un interrogativo franco e diretto: ma dove è finito l’uomo che abbiamo imparato a conoscere, nel suo bene e nel suo male? Nel senso che in questa difficile fase politica, che si accompagna a elezioni amministrative che possono cambiare il corso nazionale, il giocatore migliore della squadra Pdl si è sgonfiato come un soufflé riuscito male. Puff, irriconoscibile.
Ciò che ha reso molto riconoscibile il Cavaliere nel corso di tre lustri abbondanti è sempre stata la sua capacità di trasferire se stesso e la sua storia dentro i processi di trasformazione del Paese. Cavalcandoli in modo assai poco collegiale – dunque mai facendo squadra – ma attribuendo a se medesimo la capacità di risolvere l’italico garbuglio con le soli armi di una storia di successo, la sua di imprenditore televisivo.
Negli esempi che vi abbiamo proposto, a dimostrazione di un evidente peggioramento della sua autonomia politica, c’è un elemento che balza immediatamente all’occhio: il suo essere drammaticamente subalterno alle intemperanze altrui, l’essere trattato quasi come una ruota di scorta, strapazzato da un Formigoni qualsiasi, o da un Calderoli in vena di bubbole. In questa condizione, lo sguardo di un buon berlusconiano è forse ancora protettivo nei confronti del premier, ma ormai assolutamente disincantato.
A ridosso della partecipazione del Cavaliere a Porta a Porta, ci è capitato di incontrare Giancarlo Loquenzi, direttore dell’Occidentale, un liberale sincero che gravita nell’ambito del centro-destra. Ebbene, Loquenzi era particolarmente sconfortato da quell’atteggiamento remissivo, da quell’accettazione supina di situazioni che un tempo ne avrebbero scatenato il fuoco sacro della riscossa.“L’uomo non c’è più”, continuava a ripetere con la malinconia di un osservatore interessato ma scevro da condizionamenti.
La questione del “Giornale” ne è testimonianza palmare. A ridosso del primo turno tra Moratti-Pisapia finito come sappiamo, Sallusti si è scagliato contro Comunione e Liberazione, identificata come la centrale operativa che aveva confezionato il “cappottino” alla Moratti.
A Formigoni, che peraltro non ha mai negato diversità di vedute con il sindaco, la cosa è sembrata un’infamia. Ha chiamato l’amico Silvio e senza troppi giri di valzer gli ha pronunciato la parolina magica: Sallusti, accennando appena che da lì a qualche giorno ci sarebbe stato un ballottaggio di una qualche importanza. Berlusconi ha capito subito, assicurando l’amico su un repentino cambio di direzione al “Giornale”. Nel frattempo, fiutato il trappolone, Sallusti rovesciava su Silvio – via Vanity Fair – un’intervista bestiale con cui, sostanzialmente, chiudeva i rapporti con il padrone-editore. In tutto questo, la situazione si è parzialmente cristallizzata. Sallusti si è operato al cuore (auguri, di cuore!), ma la strada è tracciata.
Il punto 3) e il punto 5) – concertone saltato di Gigi D’Alessio e “nordizzazione” dei ministeri – fanno parte di una precisa strategia di logoramento leghista. In tempo di islamizzazione meneghina, una delle paure scientificamente introdotte in campagna elettorale, è davvero provocatorio, ma anche del tutto ridicolo, retrodatare l’orologio della storia e riprendere l’antico adagio “qui non si affitta ai meridionali”, mutuandolo in “qui non si affittano piazze ai meridionali”. E’ talmente forzoso, da far sospettare – appunto – un preciso atteggiamento demolitorio. Così come, l’ultima schioppettata (a salve) del ministro Calderoli che intenderebbe portare addirittura il Quirinale sotto la Madonnina. Quale migliore boutade per inquinare ancora un pochino i rapporti non idilliaci tra il premier e Giorgio Napolitano?
E’ del tutto chiaro, ormai, che tra Berlusconi e la Lega si ragiona da separati in casa. Ormai Bossi ha compreso pienamente che la sua base è in totale ebollizione per un’alleanza che non dà frutti da troppo tempo. Quindi passato il ballottaggio, si ritornerà a un tavolo di possibili trattative. Ma cos’ha Berlusconi ancora da offrire?
Buon ultimo, ma solo perché il cuore non teneva, abbiamo lasciato il punto 4), che consideriamo forse la sintesi della nuova impotenza berlusconiana. Per due motivi: il provincialismo e la siderale mancanza di senso delle cose. Ci è sembrato il Renzi che aspetta al portone di Arcore, il Silvio che puntava Obama per raccontargli dei giudici di sinistra. Che tenerezza. Ma poi, non rendersi conto del luogo, dell’occasione politica, continuando con l’unica ossessione conosciuta. Donna Letizia l’avrebbe bocciato, gli avrebbe detto che non si fa.