Alle 16 e 32 del 18 agosto del 1991, ricorda Michail Gorbaciov in una bella e recente intervista a Fiammetta Cucurnia su la Repubblica, i telefoni della residenza di Foros in Crimea, che ospitava il leader sovietico, smettono di funzionare. È partito il golpe, l’ultimo tentativo dei burosauri del Cremlino di fermare la perestrojka e che provocò invece, nel giro di qualche mese, addirittura la fine dell’Unione Sovietica.
I golpisti erano gente di serie B, a cominciare da quel Ghennadij Janaev, vice di Gorbaciov, che per qualche ora divenne l’uomo simbolo della congiura. Isolarono in una dacia lontana il leader sovietico più amato in Occidente e più detestato dai suoi concittadini cercando a più riprese di convincerlo a sottoscrivere e legittimare il colpo di stato. Raissa, la moglie di Gorbaciov, fu colpita da un lieve ictus e pochi anni dopo morirà mentre a Mosca Boris Eltsin reagiva con impeto e coraggio al tentativo di fermare il processo storico chiamando il popolo della capitale alla difesa della Casa Bianca, diventata il simbolo della resistenza.
Tre giorni scarsi durò l’avventura di Janaev e dei suoi sfigati complici, isolati dal mondo e privi di sostegno anche da parte delle forze armate oltre che dagli apparati di sicurezza. Ma in quei tre giorni maturò la più grande trasformazione di fine secolo che portò nel successivo dicembre all’ammaina-bandiera del rosso vessillo sopra la tomba di Lenin. Nessuno sapeva in quel momento, mentre Gorbaciov era nelle mani dei golpisti e Eltsin faceva la sua prima vera prova di leadership, che cosa sarebbe accaduto. A sinistra si intuì che qualcosa stava cambiando con una accelerazione ancora più straordinaria di quei fatti, altrettanto straordinari, dell’89 che spinsero Achille Occhetto a sciogliere, in un processo durato due lunghi e difficili anni e concluso all’inizio del 91, il “glorioso Partito comunista”.
La presenza di Gorbaciov al vertice dell’Urss aveva lenito in Occidente molte ferite di quella sorprendente stagione negli animi della gente di sinistra. Dal cuore del comunismo più ottuso era emerso il leader dal volto umano che avrebbe rifondato e forse trasformato in socialdemocrazia il più grande, feroce e drammatico sogno palingenetico del ventesimo secolo. A Gorbaciov Occhetto si era riferito nella scelta simbolica del discorso ai partigiani della Bolognina ricordando che proprio con un discorso ai partigiani il leader del Cremlino aveva annunciato il nuovo corso dopo gli anni brezneviani e la breve parentesi dellla spia-intellettuale Andropov e della vecchia cariatide Cernienko.
Il golpe spazzava tutto. L’Unità, diretta da Renzo Foa, il mio caro amico recentemente scomparso, fece un titolo a caratteri cubitali che occupò quasi tutta la testata. Diceva: “Finito il grande sogno”. Era martedì 20, a poche ore dal fallimento del golpe, il giornale che portava l’intestazione “fondato da Antonio Gramsci” al posto della vecchia appartenenza partitica (“allora fatevelo pagare da Gramsci!”, aveva reagito nervosamente Occhetto dopo l’ennesimo gesto di autonomia della direzione del quotidiano) sanciva che non c’erano più speranze e che bisognava inoltrarsi su strade sconosciute.
Fu in quelle ore che Foa mi disse che dovevo partire per Mosca. La redazione del giornale aveva nella capitale dell’Urss una bella pattuglia di giornalisti, da Sergio Sergi, a Marcello Villari e Jolanda Bufalini, per non parlare di Pavel Kozlov e Anna Zafesova, impagabili cercatori di notizie e interpreti intelligenti della crisi. La Mosca dei giornalisti era piena di talenti e dominata, culturalmente, da Giulietto Chiesa e da Fiammetta Cucurnia, imbattibili nel raccontare i progetti gorbacioviani vista l’amicizia con il vecchio leader.
La Mosca del golpe e dei giorni successivi era una città stravolta. Già nei mesi precedenti saltava agli occhi la disgregazione del potere con la visibile presenza della malavita negli alberghi e l’arrogante esosità dei poliziotti che non guardavano più in faccia neppure la nomenklatura. Appena pochi mesi prima una delegazione straniera, scortata da funzionari di prim’ordine del Pcus, era stata fermata per strada da una pattuglia per eccesso di velocità e costretta a pagare una multa salata che, sostenevano con stupito candore i burocrati, sarebbe finita nelle loro mani. Era una Mosca irriconoscibile quella che raccontavano i cronisti e che diventerà ancora più caotica alcuni mesi dopo quando la Casa bianca, in cui si erano asseragliati i deputati anti-Eltsin, venne circondato e presa a cannonate dai carriarmati del nuovo zar. Una città avvolta nel coprifuoco in cui poteva capitare, come successe a me e a Sergio Sergi, di prendersi le “fucilate” dai poliziotti che interruppero un nostro avventuroso giro notturno nella capitale in cui stava cambiando il corso della storia.
La scena del dopo golpe era piena di figure che emergevano una dopo l’altra e si offrivano alla stampa straniera e di altre che declinavano rapidamente. I giornalisti e le tv andavano a caccia di volti nuovi e esaltavano ora il sindaco di Leningrado ora l’economista liberale. Il ritorno di Gorbaciov venne accolto in Occidente come la sua vittoria invece fu l’inizio della sua definitiva sconfitta, assediato da quel Boris Eltsin che le immagini storiche immortaleranno mentre agita un foglietto sul viso del leader della perestrojka per sottolineare le sue colpe nella gestione del paese e nei ritardi nella democratizzazione.
Non ricordo quale fu il primo articolo che scrissi, ricordo che in una corrispondenza raccontai come le sedi del Pcus venissero una dopo l’altra espropriate con i funzionari in fuga e i roghi di documenti fra l’indifferenza della gente. Ricordo la catena di suicidi nell’establishment comunista di quei giorni drammatici e la visita alla Pravda ormai semi-deserta che confermava il liquefarsi di una struttura di potere che aveva intimorito milioni di cittadini.
In Occidente, ma soprattutto nella sinistra italiana, molti tifavano ancora per Gorbaciov e speravano in un accordo fra lui e Eltsin, vero leader della rivolta antisovietica. Invece, come aveva scritto l’Unità, era finito il grande sogno. Torno su quel titolo perchè sollevò scandalo anche in un partito che aveva da qualche mese cambiato nome e che si avviava a scoprire che alcuni suoi dirigenti non erano mai stati comunisti, come da biografie autorizzate veniva soprendentemente allo scoperto. Quel che non si voleva vedere era che dalla crisi dell’impero fondato da Lenin e costruito da Stalin non si poteva uscire con pari e patta. Qualcuno doveva perdere e la posta in gioco era appunto il grande sogno rigeneratore della sinistra. Finito, appunto.
La sconfitta di Gorbaciov trascinò con sé anche le aspirazioni dei post comunisti occidentali che avevano investito sulla immagine del leader societico quel capitale di speranze che anni prima aveva avvolto la breve stagione cecoslovacca di Dubček. D’improvviso milioni di uomini, anche in Occidente, anche fra quelli che non erano mai stati filosovietici, si ritrovarono senza storia. Molti leader tuttora leggono con fatica e superficialità quello che accadde in quelle settimane travolgenti. Lo scontro fra le diverse anime della sinistra si tramutò nei mesi successivi nella divisione fra gorbacioviani e eltsiniani, ma la sinistra scelse infine di cancellare con un tratto di penna il proprio passato mettendosi alla ricerca del nuovo come un naufrago completamente nudo.
Eppure quel che stava accadendo in quei giorni a Mosca era chiaro da mesi se non da anni. L’ultima sfilata del 7 novembre, anniversario della rivoluzione bolscevica, davanti al mausoleo di Lenin, era stata una cerimonia triste e priva di folla. Qualche anno prima avevo visitato a Varsavia la festa del giornale comunista che si svolgeva in un giardinetto della capitale con una povertà di cose e scarsità di persone che neppure nelle più desolate terre del nostro Mezzogiorno era immaginabile.
Ho letto, qualche giorno fa, in un reportage di un giornalista britannico pubblicato dalla Repubblica che oggi i giovani russi non vogliono più scappare in Occidente mentre in quei giorni questo sembrava l’assillo dei loro coetanei dell’epoca. Sta cambiando tutto ancora una volta e la nostra generazione, che non ha visto la guerra, potrà vantarsi di aver assistito a tutte le rivoluzioni, pacifiche e violente, che hanno cambiato la faccia del mondo. E non è finita.