«Non ci saranno più Melandri in Parlamento». È un bene o un male?

«Non ci saranno più Melandri in Parlamento». È un bene o un male?

Mi si sono fatti umidi gli occhi, solcando l’onda di una commozione genuina, quando ieri mattina mi sono imbattuto nel racconto di Giovanni Melandri che descriveva il suo ingenuo approccio alla politica alla verdissima età di 33 anni. Ve lo (ri)sottopongo, senza spostare una virgola, perché davvero esaustivo di quella separazione siderale che esiste ormai tra cittadini molto consapevoli e classe politica abbarbicata su Marte.

Racconta la nostra fu ministro: «È dal 1994 che siedo in Parlamento e non ho mai preso il doppio stipendio. Non ho fatto, come invece tanti miei colleghi, il deputato e al tempo stesso l’avvocato, il notaio, il commercialista… E quel che mi dispiace è che in futuro non ci potrà essere un’altra Giovanna Melandri, una ragazza come me che a 35 anni lascia un lavoro da economista in Montedison e decide di servire il suo Paese».

Qual è il senso delle parole di Giovanna Melandri, se non una piena difesa del professionista della politica, al quale – mancando un lavoro concreto – andrebbe ascritta più genuinità degli altri nell’esercizio del suo mandato? Eccone la dotta spiegazione: «Devono essere i partiti, a cominciare dal mio – dice l’esponente del Pd – a capire che entreranno in Parlamento solo i ricchi e i professionisti con 740 cospicui, oppure persone che durante il mandato dovranno occuparsi di quel che faranno dopo».

Piano, piano, ci avviciniamo al punto centrale, a come interpretare quel passaggio molto terreno che è poi il mandato politico. La Melandri ha una sua idea precisa: «Ritengo grave che un parlamentare vada a lavorare nel suo studio di avvocato o di notaio. Non dovrebbe esercitare nessun’altra professione». Condivisibile? Forse. Ma se il risultato opposto è quello di avere Giovanna Melandri (o chi come lei) incardinata allo scranno di Montecitorio per lunghissimi 18 (diciotto, dieci+otto) anni, facendone un autentico routinier del mestiere, allora sarà utile battere strade diverse per arrivare a una sintesi virtuosa tra due situazioni apparentemente inconciliabili.

È chiaro che i partiti hanno tutto l’interesse a portare in Parlamento gente di un certo spessore. Gente che ha un mestiere nelle mani, sia esso intellettuale o d’altro tipo, gente che nella vita corrente si è spesa con un certo decoro nell’ambito delle professioni. Un caso Melandri sarebbe – oggi – improponibile: anche al migliore dei soggetti, dopo un paio di mandati andrà indicata la porta di uscita. Di più: un bravo professionista, dopo aver dato il suo onesto contributo alla causa, quella porta dovrebbe cercarsela da sola. Come mai, lei signora Melandri, non ha sentito questa impellenza?

Il Partito Comunista e in tono appena minore la Democrazia Cristiana, da questo punto di vista ci hanno semplicemente rovinato, allevando decine e decine di funzionari ai quali il Paese ha dovuto (anche economicamente) provvedere. Cascami se ne ritrovano ancora nel Pd, purtroppo, è una mentalità dura a morire, al punto che gli inossidabili di potere se ne impipano allegramente di quel limite di due mandati sancito da un regolamento interno del partito. E restano bellamente al loro posto.

Ma torniamo al punto centrale: come interpretare da parte di un professionista il mandato parlamentare? Il paradosso è che la nostra Carta Costituzionale è il più grande ombrello protettivo per le lobby, nel senso che nessuna legge può fermare il libero esercizio della professione da parte di un deputato o di un senatore. È, ancora una volta, un problema etico, prima che deontologico. E i problemi che hanno stretta attinenza con l’etica non si risolvono con le leggi.

Accanto al problema principale, se ne evidenzia un altro non meno corposo: è giusto (e produttivo per il Paese) che l’avvocato, il medico, l’ingegnere, insomma i professionisti d’alto livello, abbandonino, d’un colpo, il cosiddetto aggiornamento professionale? E badate, l’aggiornamento non è soltanto stare sui libri, ma stare dentro la propria professione a tutto tondo. Perché nel corso di cinque o dieci anni i mestieri cambiano profondamente. (Ricordo, per esempio, Giuliano Pisapia, persona certamente superperbene, il quale nel corso del suo mandato parlamentare ha mantenuto in vita anche la sua professione di avvocato). 

Tocca alla sensibilità dei partiti trovare un onorevole punto di sintesi. Innanzitutto l’elemento economico, che dev’essere abbattuto: non è concepibile un binario parallelo in cui il parlamentare/professionista continua a incassare parcelle di un certo peso. Se non è praticabile la strada dell’azzeramento della professione (e forse neanche totalmente auspicabile), andrà chiarito, una volta per tutte, che l’unico guadagno «lecito» è lo stipendio da parlamentare. E poi, per mettere in sicurezza il ricambio social-generazionale, un consapevole e reciproco accordo tra partito e candidato, in cui chiarire che quel mandato sarà assolutamente a tempo.