Le prime segnalazioni risalgono al 7 febbraio: «Da circa mezz’ora tutti i siti in Iran sono bloccati», ha scritto su Twitter il ricercatore frelance Amin Sabeti. «Tutti i servizi di Google non funzionano», ha aggiunto l’utente Saeid su FriendFeed. «Forse stanno testando la Rete Nazionale», ha azzardato Omiddd, riferendosi al progetto del regime di Ahmadinejad di rinchiudere la sua popolazione in una propria Rete, autarchica e autosufficiente. E, di conseguenza, perfettamente sotto il controllo delle autorità iraniane.
Ma se alcuni, come riporta Iranmediaresearch.com, hanno gettato acqua sul fuoco, con il passare dei giorni, e a suon di tweet, gli allarmi si sono moltiplicati. E sono giunte le conferme: l’Iran ha iniziato a impedire, e in modo sempre più massiccio, lo scambio di comunicazioni cifrate – e dunque sicure – tra i suoi cittadini digitali. La situazione è magmatica, in continuo divenire, ma a quanto risulta a Linkiesta.it per buona parte degli iraniani è impossibile accedere, per esempio, ai servizi di Google (dalla mail a Translate), Yahoo e Facebook. Oltre a svariati altri siti. Tra cui figurerebbero, a quanto riporta Hacker News, BMI.ir , BPI.ir e Parsian-Bank.com. La mossa del governo mirerebbe a impedire che si diffondano in rete i richiami a scendere in piazza in occasione dell’anniversario dell’arresto dei leader dell’opposizione Mir-Hossain Mousavi e Mehdi Karroubi.
Che cosa sta succedendo? «Quello che sappiamo con certezza», spiega l’hacker Arturò Filastò, «è che un certo numero di Internet Service Provider in Iran ha iniziato a bloccare tutto il traffico cifrato con il protocollo SSL in uscita dal Paese». In altre parole, alcuni dei fornitori di connettività iraniani sarebbero stati costretti a utilizzare un filtro che ispeziona i dati trasmessi e, qualora trovi comunicazioni crittate con quel particolare sistema di protezione, le blocca. Ciò significa, in concreto, che «gli utenti non possono comunicare tra loro in modo sicuro». Che il filtro sia utilizzato da alcuni ma non da tutti i provider spiegherebbe il fatto che alcuni netizen iraniani possano ancora fruire di tutti i servizi normalmente disponibili nel Paese. Da cui le segnalazioni contrastanti.
Il problema ha compromesso perfino l’utilizzo del sistema anti-sorveglianza Tor (The Onion Router), che di norma consente la tutela dell’anonimato degli utenti e delle loro attività online. Uno strumento utilissimo soprattutto in regimi autoritari come l’Iran, dove incappare nel Grande Fratello digitale può significare anni di carcere, l’esilio e decine di frustate – come ha potuto provare negli scorsi giorni sulla sua pelle il blogger Mehdi Khazali, condannato a 14 anni di prigione. Il filtro apposto dalle autorità iraniane, tuttavia, non permette alla normale configurazione di Tor di funzionare. Ma gli sviluppatori, tra cui lo stesso Filastò, sono già corsi ai ripari, predisponendo degli speciali ‘Tor bridge’, cioè dei ponti in grado di offuscare il traffico senza incappare nella scure del filtro. «Ora il problema è insegnare agli utenti a utilizzarlo», afferma Filastò.
La battaglia per dare voce ai dissidenti iraniani è in ogni caso sempre più difficile. Come riporta il network di attivisti Global Voices, infatti, negli scorsi giorni si è appreso che il regime ha iniziato a servirsi anche del servizio di videochiamata di Skype per condurre un interrogatorio di un giornalista della Bbc, minacciando rappresaglie ad amici e familiari già preventivamente detenuti. Dopo l’interrogatorio, la sorella è stata rilasciata. Ma non prima di averla costretta a una falsa confessione alla tv di Stato. Blogger e giornalisti, come Parastou Dokouhaki, Mazieh Rasouli e Sahmoldin Borghani, hanno subito la stessa sorte.