«Nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e delle politiche del governo, i risultati della ricerca non vengono mostrati». Non è un incubo, ma la realtà con cui devono quotidianamente confrontarsi oltre 250 milioni di utenti dell’equivalente cinese di Twitter, Sina Weibo. O almeno, chi abbia l’ardire di cercare uno delle centinaia di termini politicamente sensibili che vengono identificati e manualmente rimossi dai controllori del regime. Perché il Partito non censura solamente impedendo del tutto l’accesso a siti scomodi tramite il “Great Firewall”, la Grande Muraglia Elettronica all’opera da quasi un decennio. C’è un secondo tipo di censura, più mirata e subdola. E viaggia sui social media locali che, sempre con maggiore successo, hanno sostituito Facebook e Twitter, irraggiungibili dal 2009. A descriverne nel dettaglio le modalità di funzionamento è uno studio, condotto da tre ricercatori della Carnegie Mellon University di Chicago, intitolato “Censorship and Deletion Practices in Chinese Social Media” e di prossima pubblicazione sulla rivista First Monday. Linkiesta ha potuto esaminarlo in anteprima. I risultati mostrano una preoccupante capacità del regime di adattarsi alla realtà rapida e in costante evoluzione tipica del web 2.0. Ma anche che qualcosa, inevitabilmente, gli sfugge.
Analizzando per la prima volta in termini statistici oltre 56 milioni di messaggi scambiati tra il 27 giugno e il 30 settembre 2011 su Weibo, i ricercatori sono riusciti a identificare liste precise di parole che destano le attenzioni dei controllori del regime, e perfino a stimare la probabilità che ciascun termine al loro interno venga censurato – anche retroattivamente. Risultati corroborati dall’elaborazione di 11 milioni di “cinguettii” inviati su Twitter in cinese, che hanno svolto la funzione di termine di paragone per verificare – per differenza – la popolarità di discussioni “proibite”. Si scopre così, per esempio, che i cinesi non possono sapere la verità sul Ministero della Verità né cercare “cinguettii” sul creatore del Great Firewall, Fang Binxing: il rapporto tra messaggi cancellati e messaggi che li menzionano è uno a uno. In altre parole, la censura totale. Parole come “blocco”, “bandito comunista”, “antisocietà” e “morte di re o imperatore” finiscono nella tagliola dei censori in oltre il 20% dei casi (ma con picchi di oltre il 70%). E non mancano l’artista dissidente Ai Weiwei e il culto proibito Falun Gong. Altro risultato degno di nota è come i tassi di censura cambino drasticamente da regione a regione, toccando punte del 53% di tutti i messaggi provenienti dal Tibet (da tempo, una zona calda per il dissenso politico) e fermandosi al contrario all’11,4% per quelli prodotti a Shangai.
La “mappa” della censura della Rete in Cina
Ma, a parte le percentuali, è interessante come lo studio riveli la natura imperfetta e dinamica della censura dei social media in Cina. I tassi di eliminazione dei contenuti, infatti, variano a seconda delle contingenze. «Il primo marzo 2012», scrivono per esempio gli autori in una nota, «i termini Fang Binxing e Ai Weiwei non risultano più bloccati». Evidentemente, l’attualità non richiedeva un intervento. Al contrario, i tassi si impennano in coincidenza con il moltiplicarsi delle indiscrezioni che davano per morto l’ex segretario del Partito Comunista, Jiang Zemin, toccando punte del 93,5% per cento Ancora, molte delle voci del vocabolario proibito si possono comunque scrivere e reperire su Weibo – anche se non si possono eseguire ricerche che li riguardano. «Siti di microblogging cinesi come Weibo, Tencent, Sohu e altri hanno il potenziale di cambiare il volto della censura in Cina», commentano nelle conclusioni i ricercatori, «richiedendo ai censori di monitorare i contenuti di oltre 200 milioni di produttori di informazione». Un compito tutt’altro che semplice anche per le centinaia (ma potrebbero essere molti di più) di sceriffi del web cinese.
Una conferma di quanto il direttore del Centre for Civic Media del MIT di Boston, Ethan Zuckerman, ha scritto già lo scorso dicembre: la Rete nel Paese è «più libera e complicata di quanto pensino in molti». Ciò non significa, naturalmente, sminuire la gravità degli interventi del Partito. Piuttosto, significa suggerire che la censura non ha comportato la «sterilità» del mezzo. Come mai? I ricercatori di Chicago suggeriscono due risposte: i messaggi sfuggiti alla censura sono quelli meno ripetuti (retwittati, in gergo) e diffusi; a essere rimossi sono non tutti i messaggi contenenti termini politicamente sensibili, ma solo quelli di critica – e non di aprezzamento – per il regime. Lo studio, tuttavia, non è stato in grado di corroborare nessuna delle due ipotesi. Una spiegazione alternativa potrebbe venire dall’analisi di Zuckerman. Da un lato, «la velocità di Weibo comporta che le storie possano essere ampiamente discusse prima che un censore dichiari l’argomento off limits». Dall’altro, ricorrere a un filtro preventivo anche per i contenuti scambiati sul social network «potrebbe allontanare i 250 milioni di utenti che lo usano – inclusa la maggioranza, ben più interessata a celebrità scarsamente vestite».
Lo studio del Carnegie Mellon, pur indirettamente, conferma. Perché dei 56 milioni di messaggi analizzati, i ricercatori ne hanno reperiti solamente 33.363 contenenti termini politicamente sensibili, o comunque ritenuti rilevanti. Appena lo 0,0006%. Una percentuale irrisoria, che lo studioso bielorusso Evgeny Morozov nel suo recente volume “L’ingenuità della Rete” riassume in una battuta: «La battaglia di oggi non è tra Davide e Golia, ma tra Davide e David Letterman». Troppa censura, in altre parole, potrebbe distrarre i cinesi dal loro intrattenimento digitale. E avere l’effetto contrario: renderli consapevoli dei limiti alla libera espressione cui sono sottoposti, e politicizzarli.
Eppure non tutti i segnali vanno nella direzione indicata da Morozov. Non serve dettagliare l’elenco, in continuo aggiornamento, di blogger e attivisti incarcerati e minacciati. Restando a Weibo, infatti, due sono i motivi di preoccupazione. Da un lato, la nuova politica di iscrizione, che da dicembre richiede agli utenti di registrarsi con la loro reale identità. Dall’altro, il recentissimo caso di un amministratore web condannato a due anni nei “campi di rieducazione” per aver dato corpo, in un cinguettio, a una voce su un presunto caso di Sars. E non è la prima volta che accade. Ce ne sarebbe abbastanza per allarmare le masse. Che tuttavia, dimostrano gli studi condotti negli anni dal Berkman Center di Harvard, continuano a non ricorrere (almeno nel 97% dei casi) a strumenti per aggirare la censura.