Sono le 10:40 del mattino di giovedì 12 aprile, e sulla rete cinese sta succedendo qualcosa di imprevisto. Come di consueto, è Sina Weibo, l’equivalente locale di Twitter, a raccontare cosa: «Non posso accedere ad alcun sito straniero», lamentano alcuni dei circa 300 milioni di iscritti al servizio di microblogging. «Non riesco a trovare niente su Baidu», ribattono altri, riferendosi al principale motore di ricerca in uso nel Paese.
Con il passare del tempo, si scopre che in quel momento la Cina è un’isola digitale separata dal resto del mondo. Da un lato, i cinesi non possono navigare su gran parte dei siti esteri; a quelli normalmente censurati dalla Grande Muraglia Elettronica (tra cui Facebook, Twitter, YouTube), si aggiungono servizi come l’Apple Store, Msn e Gmail. Dall’altro, è impossibile accedere ai siti cinesi dall’estero. Internet, che connette oltre mezzo miliardo di netizen nel Paese, diventa più simile a una Intranet, cioè una rete locale, che a una trama ordita con fili disseminati in tutto il mondo. Tanto più che, anche rimanendo entro i confini del Paese, i problemi non mancano, con il portale di Sina – e dunque lo stesso Weibo, che ne fa parte – funzionante a singhiozzo. «La rete cinese è morta», riassume un post su Twitter.
Alle 11:47 è un dirigente del provider Sohu a dare la sua versione dei fatti: «C’è stato un grosso problema nella struttura portante (backbone) della rete delle telecomunicazioni cinese», scrive su Weibo, «che ha reso impossibile raggiungere siti a Hong Kong, Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud, Australia e Singapore.» Ragione del blocco? Un «malfunzionamento» nella spina dorsale del web cinese. Ovvero, nel groviglio di cavi sottomarini in fibra ottica che lo collegano al resto della Rete globale. In ogni caso, conclude il dirigente, il danno «è stato riparato.»
I disagi, al contrario, dureranno fino all’una del pomeriggio. Ma non si tratterebbe di nessuna ulteriore censura: è stato un semplice guasto, afferma il dirigente. L’ipotesi sembra inizialmente plausibile. Prima di tutto, perché non sarebbe la prima volta che si verifica. Già a dicembre 2006 e agosto 2009, infatti, due terremoti avevano danneggiato i cavi che corrono sotto all’oceano, e di conseguenza rallentato o interrotto la connessione con siti localizzati, per esempio, in America. In secondo luogo, perché una scossa di magnitudo 8.6 della scala Richter – con tanto di iniziale allerta tsunami – si è verificato al largo di Sumatra proprio poche ore prima del presunto incidente. Solo un caso?
A quanto risulta dalle prime analisi tecniche dell’accaduto, sì. Gli indizi raccolti dall’azienda che monitora performance e sicurezza dei siti web CloudFlare – e raccontati dal Wall Street Journal – rispetto a due dei principali gestori del traffico online cinese, China Telecom e China Unicom, avvalorano infatti una rilettura ben diversa dello strano blackout. Che non sarebbe stato causato da un guasto, ma da modifiche al sistema di filtraggio dei contenuti online attualmente in atto. Un problema di software, non di hardware. Non si spiegherebbe altrimenti come le comunicazioni attraverso i canali di Telecom e Unicom, che hanno negato qualsiasi malfunzionamento nelle loro strutture, siano state ugualmente interrotte o quasi, mentre il traffico gestito da operatori più modesti, come China Mobile e China Railway, sia rimasto inalterato. Non solo: anche per Telecom e Unicom, «solo un certo tipo di dati ha smesso di fluire», scrive Paul Mozur sul quotidiano di Rupert Murdoch. Skype ha continuato a funzionare, per esempio. E più in generale, «il traffico non-HTTP (o DNS) è stato in grado di passare, il che suggerisce che qualcuno ha fatto un errore durante una procedura di filtraggio», spiega Matthew Prince, co-fondatore di CloudFlare. Insomma, «è probabile che abbiano filtrato tutta Internet.»
Elaborazione dati CloudFlare pubblicata sul Wall Street Journal
Un’analisi che apre scenari inquietanti. Uno è che si tratti di un semplice errore nell’aggiornamento della Grande Muraglia Elettronica che filtra come un setaccio la rete cinese, lasciando colare solamente i contenuti graditi al Partito Comunista Cinese. Anche questa è routine, nel regime. E, ogni volta che accade, per limitati periodi di tempo la Rete ne risente. Ma il network di blogger Global Voices e il sito Techinasia.com temono si sia trattato non di un errore, ma di un test. Una prova generale per dotare il regime di un “kill switch”, un bottone per mandare offline la Rete a piacimento. Magari in occasione di eventi che potrebbero essere commentati troppo liberamente sui social media, dove spesso – come già documentato da Linkiesta – la censura non è abbastanza rapida per impedire che le voci critiche si diffondano di 140 caratteri in 140 caratteri. Bloccando l’accesso ai siti stranieri, inoltre, si impedirebbe l’uso dei VPN (Virtual Private Network) che da tempo consentono ai cittadini digitali cinesi di accedere ugualmente a molti siti censurati. Il fatto che solo alcuni fornitori di servizi VPN siano stati colpiti dal blocco di giovedì è, secondo Techinasia.com, la prova che il Partito sta pensando di dotarsi del ’kill switch’.
Chissà, forse in occasione del prossimo Congresso, previsto in autunno, che dovrà rinnovare il Politburo e certificare il passaggio di consegne da Hu Jintao a Xi Jinping alla guida del Partito e del Paese. Tanto che una compagnia operante su Internet ha scritto, in un post immediatamente censurato su Weibo ma raccolto dal Telegraph, che ci sarebbe già un regolamento apposito, che potrebbe sconnettere la Cina dal resto del mondo per un lasso di tempo compreso tra tre e 24 ore.
Pensando al contesto politico in cui si è svolto il blocco, l’ipotesi del test sembra in ogni caso la più probabile. Dopo la caduta del potente Bo Xilai, infatti, il regime ha reagito al caos apertosi all’interno del Partito stringendo la sua morsa repressiva sulla Rete e, in particolare, sui social network, dove dal 31 marzo al 3 aprile sono addirittura stati vietati tutti i commenti. La guerra è alle indiscrezioni, un calderone che finisce per raccogliere tutte le notizie e i commenti invisi al regime. Oltre 200 mila ’tweet’ «dannosi» sono stati eliminati, 42 siti chiusi solo a partire da marzo. E le principali testate del Paese hanno ricevuto una circolare che prevede sanzioni penali per chi dovesse rivelare per prime le notizie su Weibo, saltando di fatto il consueto scrutinio preventivo del Partito.
E se le autorità si sono finora rifiutate di fornire qualunque spiegazione del blocco, un’ammissione indiretta è nelle parole dell’ufficiale dell’autorità che si occupa di Internet e informazione, Liu Zhengrong: «Stiamo cercando di rendere Internet qualcosa di più utile e credibile per promuovere lo sviluppo economico e sociale della Cina, così da proteggere al meglio il diritto dei cittadini di sapere, la loro partecipazione, espressione e supervisione.» Un ambiente «sano», insomma, solo quando coincide con gli interessi del Partito. In caso contrario, ecco spuntare i “guasti”.