«Il morto di mafia parla sempre: al magistrato, al medico legale, dice tutto». Inizia così il docu-film di Paolo Santolini, che prende spunto dall’ultimo libro di Attilio Bolzoni, Uomini Soli, edito dalla “Biblioteca di Repubblica”. Dopo trent’anni, Bolzoni ritorna nei luoghi che l’hanno accompagnato lungo la sua carriera di cronista. «Ho appena sfiorato Pio La Torre e il generale Dalla Chiesa, da giovanissimo reporter al giornale L’Ora. Più profondo il legame con Falcone e Borsellino, da corrispondente di Repubblica in Sicilia per un quarto di secolo». “Uomini soli” sono La Torre, Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino perché sono stati «italiani troppo diversi e troppo soli per avere un’altra sorte».
Il viaggio del cronista inizia dal quadrilatero dei cadaveri eccellenti. «Calogero Zucchetto, poi Rocco Chinnici, più avanti a poche centinaia di metri il presidente della Regione Piersanti Mattarella. Sono passati 29 anni e non sono più venuto qui». Siamo nel capoluogo siciliano alla fine degli anni ’70; Bolzoni si trasferisce a Palermo nel maggio del ’79. In quei giorni, i giornali titolavano ”Palermo come Beirut”, ma in realtà, spiega Bolzoni, «Palermo era peggio di Beirut».
«La città mattatoio era questa». Soltanto nel 1982 ci furono 148 morti nel capoluogo siciliano. E Letizia Battaglia, oltre ad essere amica di Bolzoni, è anche una fotoreporter palermitana che in quegli anni ha visto tanto sangue:«Forse tutti non li ho fotografati. Noi non siamo andati in guerra. Io vivevo nella mia città, dovevo fare cronaca che poteva essere di qualsiasi genere. Ma non tutti questi morti dietro l’altro, una carneficina…».
Il primo omicidio che fece tremare il Paese fu quello comminato a Pio La Torre, datato 30 aprile 1982. «Ero lì quella mattina – racconta Bolzoni – i brividi, la paura: era diventato un uomo pericoloso Pio La Torre, si era messo in testa che diventare mafioso doveva essere reato. I missili della Nato a Comiso non li voleva. E di Palermo diceva: “questa è una città dove si fa politica con la pistola”». Quella mattina anche Francesco La Licata, oggi cronista del quotidiano La Stampa ed esperto del fenomeno mafioso, dice a Bolzoni che «i notiziari non avevano ancora dato la notizia dell’uccisione di La Torre, ma le persone erano già sul luogo del delitto sull’onda del passaparola». La Licata pensa che «una cosa del genere non è mai più accaduta». E il figlio di La Torre, che Bolzoni incontra nel viaggio del docu-film, confida: «Lui era un grande rompicoglioni. La sua vera ossessione non era la mafia ma il riscatto del popolo siciliano». E in quel contesto palermitano e siciliano la mafia era l’ostacolo maggiore. La Torre «veniva all’Umberto a spiegarci la mafia, ma lo faceva con un linguaggio semplice», continua La Licata.
Nel viaggio di Bolzoni c’è anche il ricordo di un morto meno noto, Paolo Procaccianti, un medico legale che fu ucciso perché «era un galantuomo. Gli avevano chiesto di taroccare una perizia, ma non l’ha fatto». E l’ammazzarono.
Il secondo omicidio, il secondo “uomo solo”, fu il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Bolzoni ha incontrato il figlio Nando, che gli ha raccontato quegli attimi con l’emozione dipinta ancora sul viso: «Ricordo quasi l’incredulità della notizia, la violenza della notizia». Letizia Battaglia ricorda la timidezza e la riservatezza del generale: «Quando arrivò cercavamo di fotografarlo con la moglie. Poi un giorno ci fu un ricevimento in un locale elegante di Palermo. Lui arrivò lì e noi ci precipitammo a fotografarlo. E mi disse:”E’ contenta adesso?”». Dicevano che Dalla Chiesa non avesse capito niente di Palermo. Ma Carlo Alberto aveva capito tutto. Il suo testamento, continua Bolzoni, fu un’intervista che rilasciò a Giorgio Bocca: «La mafia è cauta, ti verifica da lontano. Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato».
E anche per i giornalisti, che si occupavano in quegli anni di mafia, non fu facile: «Per noi quelle non erano delle fonti, erano sangue e carne». E «Palermo ti lascia delle cicatrici, e non c’è anestesia che ti faccia passare il dolore. Come fai? Devi essere una bestia!», dice Bolzoni.
La storia più terribile è stata quella di Giovanni Falcone. Un altro uomo solo, lasciato solo dallo Stato. «Era un vero rivoluzionario, è vero che la rivoluzione chiede tempo e noi non glielo abbiamo dato», afferma Alessandra Camassa, magistrato che collaborava con Giovanni Falcone. «Era timido con le donne. Ci faceva impazzire. E diceva:”Poi dicono che voglio fare il protagonista”». L’ultimo ricordo di Pietro Grasso, attuale procuratore nazionale antimafia, è suggestivo: «Eravamo insieme su un aereo, io e Giovanni. Mi dà il suo accendino d’argento. E mi dice: ”Non è un regalo, me lo ridarai se dovessi riniziare a fumare”. Dopo qualche settimana fu ucciso. E io ancora oggi ho il suo accendino in tasca. E vivo con la speranza, lo porto sempre con me, di poterglielo restituire un giorno».
E infine il docu-film si conclude con la Strage di Via d’Amelio. Quando una 126 carica di tritolo, ubicata sotto casa della mamma di Paolo Borsellino, fece saltare in aria l’ultimo “uomo solo”, Paolo Borsellino, e i suoi agenti della scorta. «C’era di tutto – racconta con le lacrime agli occhi Letizia Battaglia- pezzi di corpi, pezzi di tutto. C’era chi piangeva, chi gridava. Mamma mia che cosa abbiamo avuto. Basta, Attilio. Basta».