È da quando si è buttato in politica che Barack Obama loda, corteggia e ringrazia Bob Dylan “per avere aperto il mio mondo negli anni del college”. Dylan però gli ha (quasi) sempre dato buca, come a tutti coloro che si sono azzardati a esaltare col ciglio umido “il messaggio che diffonde la sua voce”.
Martedì Obama lo ha premiato con la più alta onorificenza che può assegnare a un civile. “Sono un suo grande fan” ha ripetuto ancora una volta, visibilmente raggiante. Bob Dylan non si sa, portava gli occhiali scuri durante la cerimonia. Certo la “Presidential Medal of Freedom” pareva un laccio al collo del “più grande gigante della musica americana”. Ma è improbabile che Dylan si faccia accalappiare.
Una sbandata c’è stata. Era l’irripetibile estate dell’Obama-mania (2008), e anche Dylan al Times confessò la sua ammirazione per “questo tizio che ridefinisce la natura della politica” esprimendo la speranza che “le cose possano cambiare” in un’America “demoralizzata dalla povertà”. Era la prima volta, registravano increduli i cronisti, che Bob Dylan si arrischiava a concedere una sorta di endorsement a un politico.
Durò poco, però. Meno di un anno dopo, nell’aprile del 2009, Dylan torna a prendere le distanze dalla politica “solo intrattenimento, sport” e dai politici, “animali da feste di gala, (…) intercambiabili, uno vale l’altro”. Anche se entrano in carica con le migliori intenzioni, avverte, “dovete guardarli bene quando vanno via: il più delle volte sembrano uomini logori, sconfitti”.
Obama deve ammettere che Dylan gli sfugge quando, un paio d’anni fa, il suo idolo accetta di suonare la mitica “The Times They Are a-Changin’“ alla Casa Bianca per celebrare i leader dei diritti civili. “Di solito questi talenti muoiono dalla voglia di fare una fotografia con me e Michelle prima dello show” racconta il presidente a Rolling Stone. Dylan no. “Non si è neanche presentato alle prove”. E quando ha finito di suonare, massacrando il pezzo, come fa metodicamente con le canzoni che i fan vorrebbero cantare in coro, “è sceso dal palco, mi ha stretto la mano con un leggero sorriso e se n’è andato. Tutto qui. Se n’è andato”.
Obama si rassegni. Dylan è in fuga da quasi mezzo secolo. E riesce sempre a non farsi trovare dove lo cercano per definirlo musicalmente, politicamente, perfino religiosamente. I cultori del tempio folk lo ricoprirono d’insulti quando abbracciò la chitarra elettrica. Poi rinnegò anche quello ebraico, e sul palco per alcuni anni salì un “cristiano rinato”, ansioso di evangelizzare il pubblico. Nel 2004 il poeta si è concesso anche la gioia liberatoria e ben remunerata dello sputtanamento, vendendo faccia e musica a una pubblicità di intimi femminili.
Bob Dylan ricorda nella sua autobiografia (Chronicles, Simon&Schuster, 2004) quando il movimento infiammato dalle canzoni di protesta che aveva scritto nel biennio 62-63 veniva a cercarlo a casa, chiedendogli di “farsi carico dei suoi doveri come coscienza di una generazione”. Al quel tempo però – rivela – il suo politico preferito era il senatore dell’Arizona Barry Goldwater, il candidato Repubblicano sconfitto da Lyndon Johnson alle presidenziali del 1964, uno dei padri della rinascita conservatrice in America. A Dylan piaceva perché “mi ricordava Tom Mix”, la stella dei western muti degli anni ’20. L’ennesimo sberleffo di un anarchico che non voleva “far parte di quella foto di gruppo”. Di nessun gruppo, probabilmente.
A Obama per la campagna elettorale rimane una playlist ecumenica e politicamente inaffondabile: Stevie Wonder per i fratelli più anziani, il rapper Jay-Z per quelli più giovani (ma con il doveroso monito al rap di bandire gli sfoghi misogini che turbano anche le figlie Malia e Sasha), Bruce Springsteen per gli operai bianchi arrabbiati.
A Dylan però meglio rinunciare. Sono ventiquattro anni che va avanti il suo “Never Ending Tour”, circa 2500 tappe in fuga da un palco all’altro per non morire prima del tempo, imbalsamato come un Paul McCartney qualsiasi. Uno così non lo fermi con una medaglia.