Champion, storico marchio dell’abbigliamento sportivo, è in vendita. Il possibile acquirente, si vocifera al quartier generale di Carpi (MO) – in questi giorni chiuso per degli accertamenti strutturali in seguito al sisma che ha colpito l’Emilia – sembra sia Bombay Rayon Fashion Ltd, società indiana già licenziataria, dal 2008, del marchio Guru.
Per ora si tratta soltanto di rumors, ma ci sono due indizi che portano in questa direzione. Il primo: le collezioni per l’inverno del 2013 non sono ancora state disegnate. Un ritardo notevole, poiché, dice chi ci lavora, si comincia a predisporle un anno e mezzo prima: 8 mesi per i disegni e i prototipi e una decina per la produzione. Il secondo: senza intavolare alcun tavolo con i sindacati, la proprietà ha deciso di chiudere entro fine mese il centro sviluppo e design di Scandicci (FI) proponendo a una sessantina di dipendenti il trasferimento a Carpi, che peraltro dista ben 150 km.
Una mossa “da multinazionale”, che stride con una realtà imprenditoriale famigliare dove, come raccontano su Facebook gli stessi dipendenti, che hanno creato il gruppo “Vertenza Champion Scadicci” capitava che i dirigenti giocassero a pallone con i magazzinieri. Politica e sigle sindacali sono ovviamente intervenute, ma senza successo. Addirittura il sindaco di Scandicci Simone Gheri, in una lettera indirizzata a Turiddo Campaini, presidente del consiglio di sorveglianza di Unicoop Firenze, ha chiesto di boicottare i prodotti Champion all’interno dei centri Coop. Qualche giorno fa è stata la volta del presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi, affermando che «sottrarsi al confronto con le istituzioni è un atteggiamento irrispettoso e inaccettabile, che mostra un aperto disprezzo verso i diritti dei lavoratori e che nella storia industriale e sindacale della nostra regione rappresenta davvero un’eccezione». Un’eccezione a tutti gli effetti: fino a qualche mese fa Champion non aveva nemmeno una rappresentanza sindacale in azienda. Non ce n’era bisogno.
Per capire cosa è cambiato dallo scorso agosto, cioè da quando il patron Sauro Mambrini, non si è fatto più vedere a Scandicci, bisogna tornare al 2001. Anno in cui – con l’aiuto finanziario del fondo Obiettivo Impresa di Unicredit, oggi Sofipa Sgr e della banca olandese Abn Amro – assieme a una quindicina di soci Mambrini rileva dalla multinazionale americana Sara Lee (che lo aveva messo sul mercato nel 1999 assieme a Champion Asia, acquisito da un licenziatario) il marchio Champion Europe.
Un po’ di storia: fondata nel 1919, Champion arriva in Italia nel 1979, e dal 1983 il quartier generale per la distribuzione è a Carpi. È in questi anni che viene assunto Mambrini, neo laureato in lingue, che in breve tempo, soprattutto grazie alla conoscenza dell’inglese, scala i piani alti del management. Per la “testa pensante”, il centro stile e design, viene scelta Prato, poi abbandonata per Scandicci quando i figli dei fondatori, William e Abraham Feinbloom, cedono il marchio, nel 1988, a Sara Lee, che aveva già degli uffici in zona. Nel 1993 anche il centro operativo di Carpi finisce nell’orbita della multinazionale. Sono gli anni del boom: gli atleti della squadra Champion vincono due volte la maratona di New York, il marchio diventa sponsor tecnico di molte squadre dell’Nba e non solo. Nel 1999 le maglie degli azzurri del basket italiano vincitori all’Europeo sono targate Champion.
È un successo, ma non basta. Mambrini, racconta chi lo conosce molto bene, è uomo deciso e ambizioso. E fa un passo più lungo della gamba nell’estate del 2006, rilevando Ottanta Spa, proprietaria della catena Giacomelli Sport, quotata in borsa e poi fallita nel 2002, ma considerata strategica: 46 dei 49 punti vendita sono infatti situati all’interno di centri commerciali, oltre a un giro d’affari da 63 milioni di euro. Stando a quanto riferisce sotto promessa di anonimato uno dei commissari liquidatori della Giacomelli, che ha gestito il passaggio alla Ottanta Spa, «la società non era una meraviglia, sono stati fortunati a riuscire a venderla allo stesso nostro prezzo un anno dopo».
L’esborso, come si legge sul consolidato 2006 di Champion Europe, è di 14,7 milioni di euro. Sempre i conti di quell’anno rivelano una cassa di soli 15,7 milioni di euro, ma crediti nei confronti di clienti per circa 50 milioni. Proprio nella nota integrativa la società scrive: «La diminuzione dei crediti netti verso clienti […] riflette la contrazione delle vendite e, più in generale, la sfavorevole congiuntura economica a livello Europeo, caratterizzata dalla diminuzione degli acquisti di abbigliamento sportivo da parte dei consumatori, dall’incremento delle difficoltà per i negozi sportivi al dettaglio (in particolare nel mercato italiano) e dall’incremento delle quote di mercato controllate dalla Grande Distribuzione Organizzata (specialmente sui mercati Europei)». A queste condizioni l’acquisizione di Giacomelli diventava quindi una scommessa piuttosto rilevante.
Sempre nel 2006 arriva la seconda tegola: in base ai patti parasociali sottoscritti con Unicredit per rilevare il marchio attraverso un management buyout, Mambrini avrebbe dovuto riacquistare l’11,67% delle circa 600mila azioni in mano a Piazza Cordusio per un controvalore di 14,5 milioni di euro. Mambrini prende tempo, Unicredit ovviamente non ci sta e instaura un arbitrato nei suoi confronti, poiché – tramite Mediterraneo Spa – il manager controlla il 70% delle quote dell’azienda carpigiana. Nell’estate del 2009, come si legge nel bilancio del fondo gestito dalla banca guidata da Federico Ghizzoni, il tribunale dà ragione all’istituto di credito, il quale deposita le azioni presso un notaio, a disposizione di Mambrini. Che non si rassegna, continuando a contestare l’esito del lodo.
Fino a quando, nel febbraio 2011, la Procura di Modena iscrive sul registro degli indagati l’imprenditore e la moglie Liana Girasoli, titolari di Champion Europe. Lo strascico della vicenda è riscontrabile nel bilancio al 30 giugno 2011, che evidenzia un’operazione di riacquisto di azioni proprie dal valore di 19,68 milioni di euro. Una botta non da poco per un’impresa che, sebbene in utile per 3,4 milioni di euro, in cassa ha soltanto 23,3 milioni di euro. Va meglio alla controllante, cioè la Mediterraneo Spa, di cui Mambrini è amministratore unico – ed è a sua volta controllata da una società inglese, la A.B. Industries Ltd, di cui non si hanno molti dettagli – che ha chiuso l’anno fiscale 2010-2011 con utile a quota 3,9 milioni di euro e liquidità per circa 70. Particolare curioso: la sede di Mediterraneo Spa è allo stesso indirizzo dello studio del commercialista Gigetto Furlotti, presidente e amministratore delegato della Game 7 Athletics, controllata da Champion Europe, che gestisce i punti vendita multimarca ex Giacomelli Sport. Insomma, tutto in famiglia. Dove i soldi sembrano esserci.
La relazione sulla gestione al 30 giugno 2011, chiuso in utile per 2,4 milioni di euro recita infatti: «Le Vendite – pari a complessivi Euro 59,4 milioni, di cui Euro 2,5 milioni relativi alla Divisione Monomarca Champion – sono incrementate del 15,7% rispetto ai valori dello scorso anno […] Il Margine sul Prodotto, pari a complessivi Euro 29,1 milioni, è migliorato di Euro 4,4 milioni rispetto al precedente esercizio; la marginalità percentuale è stata pari al 49%». Se i prodotti Champion valgono solo il 4% del fatturato complessivo, deve aver pensato Mambrini con i suoi, meglio monetizzare il marchio per liberare risorse e pagare Nike e Adidas per avere la loro merce sullo scaffale.
Il resto è storia di oggi: l’11 novembre 2011 arriva la prima lettera di trasferimento a Carpi per 6 dipendenti amministrativi e della logistica, a partire dallo scorso gennaio. A febbraio è la volta di altri sette. Nel frattempo ben 16 lavoratrici si licenziano. Il sussidio di disoccupazione scatta soltanto per le madri che hanno figli sotto un anno. Scoppia il caso mediatico, e Mambrini, che aveva affidato la gestione del passaggio alla responsabile delle risorse umane, Caterina De Rossi, si fa vivo con una lettera ai lavoratori, in cui spiega che: «L’azienda ha deciso di propria iniziativa di supportare il personale con una serie di proposte appositamente valutate, con particolare attenzione ai temi dell’alloggio, del trasporto collettivo e, per le famiglie con i bimbi, delle spese di asilo nido e scuola materna».
L’8 maggio i dipendenti di Scandicci replicano con una missiva in cui sostengono che le suddette proposte, espresse solo “verbalmente”, sarebbero irrisorie: una macchina ogni 4 dipendenti a disposizione per il trasbordo da Scandicci a Carpi, soltanto il lunedì e il venerdì, per il periodo luglio-dicembre 2012, il pagamento di un affitto a Carpi ogni due dipendenti, il rimborso delle spese dell’asilo nido, soltanto per l’eventuale quota eccedente rispetto a quella di Firenze. Non un bell’esempio di welfare, soprattutto nei confronti di chi ha figli, mariti e mutuo a Firenze. Anche perché, scrivono ancora i dipendenti, «alle persone già trasferite non è stato fornito nessuno dei suddetti supporti». Un meccanismo che è arduo definire “incentivante” per quanti sono in procinto di partire per l’Emilia.
Contattati ripetutamente, Sauro Mambrini e Caterina De Rossi hanno preferito non rispondere alle domande de Linkiesta. Rimangono dunque molti dubbi: davvero non era possibile intraprendere un percorso diverso, condiviso con i sindacati, pur nella necessità di una razionalizzazione? E davvero i soldi per gestirlo non c’erano, nonostante Champion Europe e Game 7 abbiano comunque chiuso i bilanci in utile? Oltre ai quesiti, c’è anche un fatto: un futuro in Italia di un glorioso marchio globale, privato della sua testa pensante, è estremamente difficile da intravedere all’orizzonte.
Twitter: @antoniovanuzzo