La Lega degli onesti di Maroni. «La Lega senza intrallazzi né conti all’estero, la Lega che mi ha conquistato per i suoi ideali di onestà e trasparenza, per i suoi valori etici e i suoi meravigliosi militanti», come la descrisse lo scorso gennaio proprio l’ex ministro dell’Interno. Insomma, la Lega 2.0: un partito che assomiglia sempre di più alla Lega di Bossi. Sempre più uguale al Carroccio che avrebbe dovuto travolgere e di cui invece si trova a rappresentare la naturale prosecuzione. Quasi un’appendice.
Dalle manifestazioni in Padania ai Palazzi romani, la rivoluzione annunciata da Maroni non si è ancora vista. I rapporti privilegiati con Silvio Berlusconi sembrano essere tornati quelli che erano. Almeno, a questo si sta lavorando in questi giorni. Persino l’ondata di pulizia promessa dal leader varesino lo scorso aprile, scopa in mano durante la festa dell’orgoglio padano, sembra essere stata dimenticata. Una sola differenza salta all’occhio. La Lega di Bossi navigava attorno al 10 per cento dei consensi. Quella di Maroni – non certo per colpa sua – rasenta il 4 per cento. E alle prossime Politiche rischia seriamente di non superare la soglia di sbarramento (chissà se è per questo che l’ex titolare del Viminale ha recentemente proposto di abbandonare Roma Ladrona e candidare il partito solo a consultazioni locali).
Lo scorso dicembre Roberto Maroni firmava un emendamento alla manovra economica del governo Monti per chiedere di mettere all’asta le frequenze televisive. Una modifica al provvedimento che avrebbe creato serie difficoltà a Mediaset, giuravano i fedelissimi dell’ex ministro. Abbastanza per sancire la definitiva rottura leghista con il Cavaliere. Sei mesi dopo, Maroni tratta con il Pdl sul semipresidenzialismo. Oggi il Carroccio sarebbe pronto a votare la riforma voluta dai vertici di Via dell’Umiltà, in cambio del riconoscimento del Senato federale. Sulla linea di quel disegno di legge firmato da Bossi e Berlusconi la scorsa estate e depositato al Senato poche settimane prima della caduta del governo. La scorsa settimana si sono consumati diversi incontri a Palazzo Madama per trovare l’accordo. Da una parte Roberto Castelli e Federico Bricolo, dall’altra Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa. Domattina è previsto un nuovo vertice a poche ore dal voto. Gli esponenti della Lega Nord sono al lavoro per trovare un compromesso. Una strategia non proprio nuova. Non era stata proprio la Lega di governo a barattare il federalismo fiscale in cambio di qualche norma ad personam?
Eppure si dice che a via Bellerio ora tutto sia cambiato. La definitiva ascesa di Maroni – che per essere ufficialmente incoronato dovrà attendere il congresso di fine giugno – ha portato aria nuova. Altro che Palazzo Chigi. Quella dell’ex ministro è Lega di lotta. Anzi, di rivoluzione. Un partito pronto alla disobbedienza civile per protestare contro l’Imu introdotta dall’esecutivo tecnico. Una Lega che non si vergogna di portare in piazza la sua rabbia primigenia, come ieri a Verona. Disposta a bruciare i moduli F24, nemmeno fossero la cartoline precetto della guerra in Vietnam o le leggi superflue condannate al rogo dal ministro Calderoli. Eppure una Lega in tono minore, vittima di un paradosso. Il paradosso di un dirigente che invita a infrangere le leggi. E che fino alla scorsa estate era il severo e rigoroso titolare del Viminale.
Lui, il leader dei barbari sognanti, la corrente dei fedelissimi in aperta lotta – poi vinta – con gli avversari interni del Cerchio Magico. Quelli più vicini a Bossi. Lo stesso dirigente che a gennaio aveva aperto uno scontro nel partito per chiedere l’arresto del sottosegretario Nicola Cosentino. Vera scelta di onestà. E che di fronte alla sconfessione del suo credo non si vergognava a scrivere su Facebook: «Sono amareggiato e un po’ deluso», in aperta contraddizione con i vertici del partito. Lo stesso Roberto Maroni che oggi preferisce tendere la mano agli alleati di un tempo. «Staccate la spina a Monti – le sue parole ieri durante la manifestazione anti-Imu – e ricominciamo a parlare». La differenza, spiegano i suoi, è sostanziale. Bossi si rivolgeva a Berlusconi, Maroni parla direttamente ad Alfano. «Il Cavaliere non lo nomina mai». Rivoluzioni per fini osservatori.
Maroni con la scopa verde in mano, pronto a fare pulizia dentro e fuori al partito. Duro nel minacciare il presidente lombardo Roberto Formigoni, magari attraverso gli ultimatum degli uomini a lui più vicini. Pronto a candidarsi al Pirellone, raccontano ancora. Ma ai vertici di un partito che alle poltrone in Regione Lombardia ancora non rinuncia. E per evitare questioni, resta anche in Giunta, al fianco proprio di Formigoni. Maroni, la cui presenza era stata vietata ad ogni incontro pubblico della Lega. «Una fatwa non prevista dallo statuto, contro la quale non potevo neppure fare ricorso», si era lamentato da Fabio Fazio lo scorso gennaio. Aggiungendo con amarezza: «Nei piani alti del partito c’è qualcuno a cui non sono molto simpatico». E chissà a chi si riferiva. Magari addirittura a Umberto Bossi, fino ad allora unico leader incontrastato del movimento. Ancora presente sul palco, al posto d’onore, durante le manifestazioni della nuova Lega di Maroni.