CineteatroraLa resistenza sconosciuta delle donne, senza primavera araba

La resistenza sconosciuta delle donne, senza primavera araba

Donne musulmane, sconosciute e non standardizzate. Scoperte nei viaggi dalla voglia di essere anticonformista e non banale di Francesca Caferri, giornalista di Repubblica. Qui, una sua intervista e, di seguito, un estratto del suo ultimo libro, Il paradiso ai piedi delle donne, in cui racconta le donne conosciute nei suoi viaggi, per un ritratto più profondo e reale del mondo della donna nei paesi musulmani.

Nel suo saggio, costruito su specifiche aree geopolitiche, tornano parole chiave come indipendenza, speranza, democrazia, dignità, uguaglianza, educazione. Temi che accomunano, ma invitano anche a rileggere le battaglie femminili musulmane con una distinzione tra opposizioni sulla scia dell’interpretazione coranica e sfide aperte a partire dal web. Quali sono, secondo lei, i casi più emblematici di questa differenza?
Al centro del mio libro c’è la rivoluzione silenziosa e invisibile delle donne, sia all’interno delle città, sia all’esterno. Una sfida a noi e al nostro pregiudizio, al fatto che parliamo di loro spesso come delle poverette represse. Molte si battono invece per quello che vogliono e compiono la sfida attraverso più canali. Uno è senz’altro quello dell’interpretazione coranica, fondamentale per il movimento delle femministe islamiche che non rinnegano il testo sacro, ma lo usano come punto di partenza per rivendicare i propri diritti. Rileggere il Corano significa quindi cogliere l’occasione per riaffermare delle libertà e sfidare i conservatori sul loro stesso terreno. Dall’altro lato, c’è il web e in paesi come l’Arabia Saudita dove per le donne è difficile anche solo guidare, servirsi di internet significa poter abbattere certe barriere. Si pensi alla battaglia vinta per lavorare nei negozi di intimo o a quella ancora in corso per guidare o entrare nella Shura, l’assemblea del re. Battaglie diverse, condotte con metodi diversi, ma per lo stesso obiettivo. Tra i casi emblematici c’è sicuramente Asma Mahfouz, giovane impiegata egiziana che un giorno registra un video con il telefonino e dalla sua camera incita ad andare in piazza. Non si può dire che inizi con lei la rivoluzione post Mubarak, ma si diffonde anche grazie a lei. E poi c’è Fatema Mernissi, grande studiosa marocchina che a più di settant’anni è considerata la madrina di tutti coloro che vogliono rileggere il Corano.

Nel capitolo dedicato al Pakistan è citato parte del testamento politico della leader Benazir Bhutto prima dell’attentato mortale nel 2007. Si legge l’insistenza sulla lotta all’estremismo come guerra alla povertà e urgenza di riforme contro il fanatismo. In quale paese ritiene che le donne abbiano fatto un passo avanti e non due indietro per effetto di restrizioni?
Sicuramente non in Pakistan, ed è l’aspetto che colpisce maggiormente perché è stato il primo paese a eleggere una donna come premier, nonostante Benazir Bhutto non abbia mai fatto approvare leggi a favore delle donne. Le condizioni femminili sono tuttora a dir poco drammatiche: tra aggressioni, stupri e violenze all’ordine del giorno, le donne in Pakistan sono considerate solo “pezzi di carne”. In Marocco, invece, pur tra molte contraddizioni e ferite aperte, si sono fatti progressi importanti a partire da un nuovo codice della famiglia. Non tutto è messo in pratica, ma almeno il passo della legge scritta è visibile, cosa che invece manca in Arabia Saudita, dove con la salita di re Abdullah si sono notate delle aperture, ma senza nulla di scritto. Così nello Yemen, paese che si muove su un confine molto ibrido. E poi fa sorridere, ma anche in Afghanistan negli ultimi decenni le donne hanno potuto rivendicare il proprio ruolo con il sostegno delle truppe di intervento straniere. Il paradosso è che nel 2014 le truppe se ne andranno e l’Afghanistan sarà probabilmente il caso più stridente di un arretramento inevitabile.

Se è il collasso economico a invocare un cambiamento coinvolgendo anche le donne in nuove professioni, per esempio nella ricostruzione dei sistemi medico-sanitari – è il caso di Habiba Sorabi, governatrice del Bamiyan afghano – quale risposta “eccezionale” può provenire invece dalla “normalità” di giovani blogger come l’egiziana Asma Mahfouz?
Per ogni blogger l’eccezionalità sta nel fatto di esserci, di essere su un palcoscenico mondiale. Questo vale anche per ragazze come Eman al-Nafian, saudita e fondatrice di Saudiwoman. Foreign Policy l’ha inclusa tra i 100 pensatori più influenti, ma nel suo paese non può guidare né incontrare un uomo che non sia della famiglia in un ristorante, quindi nemmeno un giornalista. Esempio simile è Afra Nasser, yemenita di 24 anni, secondo la CNN il suo è uno dei primi 10 blog per capire il Medio Oriente. Ad ogni modo, non si tratta mai di “rivoluzioni internet”, ma di rivoluzioni vere e a lungo termine, soffocate nel sangue e con combattenti vere. Ognuna di loro lo è, senza privilegi. Il merito del web poi certamente è stato ed è ancora di far uscire, grazie a una videocamera in ogni cellulare, notizie che fino a poco tempo fa era impensabile divulgare.

In relazione a Tawakkol Karman, giornalista e premio Nobel yemenita per la pace 2011, è riportato un estratto di discorso in cui sostiene che non sia possibile attribuire la civiltà umana esclusivamente agli uomini o alle donne. Sul fronte saudita, Waheja al-Huwaider, incita a prendere atto di un mondo che entra dalla finestra. Quale deve essere, secondo lei, il rapporto tra indipendenza e resistenza perché si possa parlare di civiltà umana?
Il ruolo dell’informazione allargata oggi fa sì che non esista più un unico verbo, che non si possa più mentire. Prova ne è una meravigliosa ragazza come Manal al-Sharif, saudita, che ha sempre pensato non si potesse ascoltare la musica, ma con l’arrivo di internet e delle televisioni si è resa conto della falsità di certi veti. Così, dalla musica è passata a contestare il divieto di guida, assente nel Corano. L’indipendenza economica è però una premessa fondamentale perché si possa resistere: si pensi alle prime due poliziotte afghane che non avevano nessuna voglia di imbattersi in quella professione, né tantomeno di combattere il regime dei Taliban, ma hanno scelto di addestrarsi per dar da mangiare ai figli. Accanto ci sono i casi più fortunati di chi deve molto a un padre lungimirante o a un marito. Khlood al-Dukheil, imprenditrice saudita, ammette la fortuna di un padre che, oltre a potersi permettere di istruirla, ha scelto di farlo. La stessa Eman al-Nafian, partita da Riyadh per studiare finanziata dalla borsa di studio del re, è tornata in Arabia Saudita rifiutandosi d’essere considerata cittadina di serie B. L’indipendenza va spesso intesa inoltre come microcredito, il che significa avere accesso alla conoscenza e a una migliore educazione per i propri figli.

Il riferimento finale all’“hudud” marocchino, inteso come “confine” o soglia rischiosa da varcare, potrebbe essere una metafora utile anche all’Occidente per continuare a porsi domande?
La mia speranza è che questo libro serva a varcare un “confine”, ad abbattere qualche hudud e stereotipo. Non voglio dire che tutte queste donne ci debbano per forza piacere, ma è giusto conoscerle per quello che sono e non per quello che vorremmo che fossero. Se ci interessa capire il Marocco, dobbiamo guardare Nadia Yassine, conservatrice e fondatrice di Giustizia e Carità. Può non piacerci, ma è lei il Marocco o almeno una parte fondamentale di quel paese. E vorrei davvero che il mio scritto servisse a superare l’“hudud” del velo, per smetterla di parlarne in termini scontati di sottomissione. Il 2011 è stato l’anno delle donne musulmane: dopo piazza Tahrir, Sana’a, Il Cairo, l’assegnazione dell’Oscar a una regista pakistana per il miglior documentario o il Nobel per la pace a una yemenita, i numeri ci dovrebbero dire qualcosa e far muovere lo sforzo da Occidente. Se poi nel breve periodo delle primavere arabe sono le autorità religiose e militari a comandare con il rischio di estremismi, alla società civile va dato il tempo di organizzarsi. Una dimostrazione viene dalle elezioni egiziane che hanno visto salire inizialmente al 40% il sostegno ai 13 candidati della rivoluzione. Il problema è stato l’assenza di un vero candidato rivoluzionario e la presenza di troppi. Ma la rivoluzione è in corso da tempo, lo dicono i numeri e noi occidentali non possiamo più fingere di ignorarla. 

«Eravamo cinque donne. Sedute intorno a un tavolo, in una sera di primavera, a mangiare all’aperto: abbiamo riso e scherzato su tutto. Le calorie e la golosità, le prossime vacanze, le richieste dei figli, la difficoltà di conciliare vita privata e lavoro, i vestiti e le scarpe. Poi siamo passate ai discorsi seri: un divorzio, un marito troppo geloso ma amatissimo, la politica. Non la finivamo più. A un certo punto il cameriere, divertito, ci ha portato una seconda porzione di dolci, omaggio della casa: sul vassoio non ne abbiamo lasciato uno. La serata si è conclusa con una foto ricordo che conservo ancora. Cinque volti sorridenti. Tre con i capelli appena coperti da un velo nero, gli altri due scoperti: sfacciatamente simili nell’allegria di quel momento.

Questo libro è nato lì, nel febbraio 2010, sulla terrazza del Ristorante O a Riyadh, capitale dell’Arabia Saudita. Dalla cena con le tre amiche saudite che ci avevano aperto i loro cuori e le loro vite, io e la collega americana che mi accompagnava tornammo incredule. Entrambe, senza incontrarci prima, avevamo percorso in lungo e in largo il Medio Oriente e i paesi dell’Islam, raccontando di guerre e violenze. Ma anche di studentesse testarde, decise contro tutto e contro tutti a studiare per costruirsi un futuro, di donne che andavano al lavoro ogni giorno anche se minacciate di morte per questo, di rivoluzionarie, di madri di famiglia indomite. Eppure mai come quella sera ci sembrava di avere scoperto un mondo. Come se l’ironia delle tre amiche e le loro battute sulle abaye, le lunghe tuniche nere che – come noi visitatrici – erano costrette a indossare ogni volta che mettevano il piede fuori di casa, avessero acceso un raggio di luce sulle decine di storie che ciascuna di noi aveva raccolto nei suoi viaggi.

Di viaggi in questi anni ne ho fatti parecchi. Sono una giornalista. Ho sempre voluto occuparmi di altri mondi, parlare di come si vive là fuori: circa dieci anni fa il mio sogno si è realizzato. Ho lasciato l’arido ma istruttivo mondo del giornalismo finanziario e sono approdata alla mia vera passione: gli esteri. Era il 2001, l’anno che ha cambiato tutto. Frotte di reporter si precipitarono a raccontare il mondo da cui il disastro dell’11 settembre aveva preso origine: l’Arabia Saudita dei severi wahabiti, l’Egitto degli ambigui Fratelli musulmani, il Pakistan culla dell’estremismo. E, su tutti, l’Afghanistan dei barbari talebani, un paese che dal 1996 viveva nella stessa disastrosa condizione economica e sociale, e che per anni la stampa aveva – con qualche lodevole eccezione – ignorato. Il risultato furono fiumi di inchiostro e ore di trasmissioni radio e tv: alcuni notevolissimi, altri francamente da dimenticare.

Da allora e per anni, ho avuto l’impressione che la maggior parte dei giornalisti raccontasse la stessa storia, come un disco rotto: l’estremismo fanatico, le scuole religiose che incitano all’odio, la sottomissione del sesso femminile, le poche eroine controcorrente. Così, un po’ per spirito di contraddizione, un po’ per rabbia sono arrivata a occuparmi di mondo musulmano e di donne.

Da tempo viaggiavo in Medio Oriente e in Asia per interesse personale: eppure, quando ne leggevo sui giornali, mi sembrava che di alcuni paesi non ci arrivasse che un ritratto parziale, che non coincideva, se non in parte, con la mia esperienza. Continuavo a chiedermi come mai non ci fosse qualcosa di più da dire, un passo avanti da fare: come poteva l’Islam che aveva nutrito il genio medico e filosofico di Averroè, creato quella meraviglia assoluta che è la moschea di Cordoba, dato vita ai tesori di conoscenza ancora oggi nascosti fra le sabbie di Timbuctu essere diventato solo terrore e minaccia? Come era possibile che le eredi di Khadja e Aisha, le amatissime moglie del Profeta, si fossero trasformate negli esseri miseri e passivi di cui leggevamo sui giornali? Davvero quello stesso Corano che lodava la saggezza di Bilqis, regina di Saba, al cospetto del re Salomone, imponeva la sottomissione delle donne? Interrogativi come questi negli anni hanno guidato i miei viaggi: alla ricerca delle risposte, ho conosciuto persone da cui ho appreso enormi lezioni di vita e di dignità.

Molte di loro sono donne. Giovani o anziane, che percorrono le strade del mondo a modo loro, non come vorremmo noi. Che spesso non rientrano nei nostri schemi e per questo non sempre ci piacciono: persone come Nadia Yassine, figlia dello sceicco Abdessalam Yassine, oggi alla testa di Giustizia e Carità, il più popolare movimento politico marocchino, messo al bando perché di stampo islamico e critico nei confronti della monarchia. Nadia – a cui è stato più volte negato il visto per l’Europa, a causa delle sue idee controverse – è la figura femminile più popolare del paese, molto più della principessa Lalla Salma, moglie del re Mohammed VI, idolatrata dai magazine. È a lei e, sul fronte opposto, alle giornaliste scomode di “Femmes du Maroc”, il settimanale che nel 2009 ha messo in copertina per la prima volta nel mondo arabo una donna nuda e incinta, che dobbiamo guardare per provare a capire dove va il Marocco.

Oppure ragazze come l’egiziana Asma Mahfouz, l’eroina – velata – del 25 gennaio 2011, un’impiegata ventiseienne che, con un video girato da sola e messo su YouTube, ha spinto in strada migliaia di compatrioti contro il regime del presidente Mubarak. E che in piazza si è ritrovata fianco a fianco con Nawal al-Sa’dawi, 80 anni, psichiatra, laica, femminista, per anni esiliata per aver affiancato nei suoi scritti parole come donna e sessualità. O, infine, donne come Tawakkol Karman, la giornalista yemenita che ha guidato in maniera pacifica la rivolta del 2011 in uno dei paesi con il maggior numero di armi pro capite al mondo: per il suo ruolo nella Primavera di Sana’a, Karman ha ottenuto il premio Nobel per la Pace, prima araba a ricevere questo riconoscimento.

È di loro che questo libro vuole parlare. Donne come Nadia, Asma e Tawakkol negli ultimi dieci anni le ho incontrate in Pakistan, in Yemen, sotto le abaye dell’Arabia Saudita e in tanti altri paesi. Sono l’avanguardia di un movimento che con molta fatica, ma con successo, sta cambiando la faccia del mondo musulmano e che ancora di più lo farà nel futuro. Lo sta facendo negli uffici e nelle università, nelle piazze dove manifesta e nei Parlamenti ai quali è riuscito a imporre leggi più favorevoli alle donne; non tutte vengono applicate, ma oggi sono scritte sulla carta. E rispetto al passato è già un passo avanti.

Questo movimento rivendica le sue origini, le sue tradizioni, la sua religione; e non si limita a scimmiottare il modello occidentale. Nella Sunna, la tradizione che raccoglie gli hadith, i detti di Maometto, ovvero gli episodi della sua vita e i pareri che diede a chi andava a parlare con lui, c’è la storia di un giovane che si recò dal Profeta per chiedergli consiglio prima di unirsi a una spedizione militare: “E la sua risposta fu: ‘Tua madre è viva?’. ‘Sì’ disse il giovane. ‘E allora resta con lei, perché il Paradiso è ai suoi piedi.’”. La visione dell’Islam a cui le protagoniste del mio libro si ispirano è questa».

X