Questa volta le proteste in stile Sopa non hanno funzionato. La Duma, il parlamento russo, ha approvato in terza lettura e quasi all’unanimità (434 voti su 450) la legge che formalmente mira a inserire in una blacklist i siti che contengono materiale pedopornografico, istruzioni per suicidarsi, istigazioni a comportamenti pericolosi e abuso di sostanze stupefacenti. Scompare, nella versione finale del testo, il riferimento alle «informazioni nocive» diffuse in rete, una dicitura troppo vaga che aveva alimentato le perplessità dei critici. Che, però, non gioiscono affatto.
Perché la norma potrebbe tradursi, di fatto, nell’equivalente della Grande Muraglia Elettronica cinese. Un filtro preventivo da applicare ai siti che ospitino contenuti sgraditi e non li rimuovano entro 24 ore dalla notifica. Dove, a dare la definizione di cosa è sgradito, è un governo che già oggi, ricorda l’Electronic Frontier Foundation, censura oltre 1.200 fonti di informazione «estremista», tra siti e pubblicazioni cartacee. Ora sarà perfino più semplice, dato che i provider saranno obbligati a installare una «scatola nera» che consenta al governo di bloccare i siti inadempienti (costo dell’operazione: fino a 10 miliardi di dollari, ha scritto Cnet). Per evitare guai giudiziari, è facile prevedere che i provider saranno costretti a tramutarsi in poliziotti dei contenuti dei loro utenti. Il che significa ulteriori costi operativi, ma anche «meno velocità, stabilità e sicurezza» per i 66 milioni di netizen russi.
Nonostante l’opposizione isolata del Consiglio russo dei Diritti Umani, e una consultazione mai aperta al pubblico, il testo ha trovato l’appoggio anche dell’opposizione parlamentare – che si è così beccata dell’«idiota» via Twitter dal blogger Alexey Navalny. Votata anche una seconda proposta di legge controversa, pur se in prima lettura, che rende diffamazione e calunnia reati punibili con il carcere fino a cinque anni.
Ora il bavaglio attende la firma dello Zar, Vladimir Putin: giungerà a novembre. La compiacenza di voci usualmente critiche con il Cremlino, come quella di Ilye Ponomarev («invito i cittadini a non soccombere alla psicosi di massa», ha detto agli scettici) fa presagire che non ci sarà alcun intoppo. Anche perché laddove la democrazia è più debole, il ruolo politico di Wikipedia, auto-oscuratasi in protesta come già in Italia e negli Stati Uniti, ma anche di colossi del web locale come il social network Vkontakte, la piattaforma Livejournal e il motore di ricerca Yandex, è decisamente minore.
A nulla è servito che l’enciclopedia collaborativa abbia invitato i russi a «immaginare un mondo dove la conoscenza non è gratuita». A nulla che Yandex abbia menomato il suo motto: da «puoi trovare tutto», a «puoi trovare» – il «tutto», sparito. E a nulla sono valsi gli appelli delle organizzazioni per il libero web e la difesa dei diritti umani online: quando si è di fronte a un parlamento ridotto, come hanno sostenuto alcuni critici, a una «segreteria del Cremlino» l’attivismo digitale diviene inefficace.
Tutto insomma sembra pronto per una svolta “cinese” sul web russo, che finora era stato controllato principalmente dalla sola propaganda. Il problema è che le democrazie più compiute hanno poco da ergersi a esempio: norme simili sono state proposte – e archiviate solo a prezzo di una lunga, e mai finita, battaglia – anche negli Stati Uniti e in Italia. E sono già in vigore in Gran Bretagna, e non solo.
Il rischio è che con la scusa della tutela dell’interesse nazionale o del diritto d’autore, o della difesa degli indifesi, Putin cerchi di aprirsi la strada a una repressione più efficace del dissenso sul web, dove più apertamente si mostra la contrarietà degli oppositori di Russia Unita, che poi si palesa nelle piazze riempitesi di manifestanti durante le elezioni appena trascorse. Il fatto che la relatrice del testo, la putiniana Elena Mizulina, abbia derubricato gli oppositori a componenti di una fantomatica «lobby dei pedofili» non lascia presagire nulla di buono.