Davvero gli asiatici sono i più intelligenti del pianeta?

Davvero gli asiatici sono i più intelligenti del pianeta?

C’è una teoria controversa, nota come smart fraction theory, che vale la pena di descrivere con attenzione. Fa riferimento a un articolo pubblicato nel 2009 da alcuni ricercatori: Heiner Rindermann , Michael Sailer e James Thompson. In essa, si cerca di investigare il rapporto tra le capacità cognitive di una popolazione e lo sviluppo (o benessere, definito su più dimensioni) del Paese di riferimento. È piuttosto ragionevole assumere una relazione tra l’intelligenza media di una popolazione e il grado di benessere di una società. Quello che i ricercatori tentano di fare, nell’articolo citato, è andare oltre, con un’ulteriore ipotesi: esisterebbe un rapporto tra la quota dei più intelligenti, in una popolazione, e il benessere del paese di riferimento.

Non più la media, insomma, ma l’effetto di una smart fraction, diciamo il 5% più intelligente in un dato campione. La teoria, che potrebbe essere tacciata di elitarismo, si basa sull’assunzione e considerazione che il 5% più intelligente, in una popolazione, va a ricoprire ruoli di spicco (almeno in teoria…), che si tratti di ingegneri, architetti, avvocati, medici: la cosiddetta classe dirigente. Una sorta di zoccolo duro dell’intelligenza che finisce con l’influire sull’ambiente circostante, irradiando con i suoi benefici effetti l’intero contesto.

L’analisi empirica è condotta raccogliendo, per 90 paesi di tutto il mondo, dati relativi alle abilità cognitive degli studenti in età assai giovane (scuola primaria e inizio della scuola secondaria), testati rispetto alle capacità di lettura, di analisi matematica e competenze scientifiche. Viene costruito, in seguito, un punteggio medio che viene finalmente associato a un livello di QI.

Si assume che il QI della popolazione adulta sia assimilabile a quello della popolazione in età scolare. Una volta costruito questo indicatore di ‘abilità cognitive’, viene testata la correlazione con diverse altre variabili: il reddito pro-capite, l’Indice di Sviluppo Umano, la partecipazione politica e il livello di democrazia, il tasso di innovazione e creatività di una società, le abilità cognitive dei politici al potere.

I risultati mostrano un’alta correlazione, come è lecito attendersi, tra il livello di intelligenza del 5% più dotato e queste dimensioni del benessere. Viene inoltre mostrato come esista una correlazione tra la frazione dei ‘meno intelligenti’ e dimensioni negative, quali la criminalità o la diffusione dell’HIV.

I Paesi più ‘intelligenti’ si trovano in Asia: Singapore, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e Hong Kong, con un QI medio di 125. Sorprende la posizione arretrata dei Paesi scandinavi (tra la decima e la quarantesima posizione). L’Italia e i Paesi del Sud del Mediterraneo navigano a metà classifica. Il punto chiave sta, però, nell’inadeguatezza dell’analisi empirica, per qualità dei dati e metodologia.

Molti importanti caveat vanno infatti messi in evidenza, alcuni dei quali sottolineati dagli stessi autori. Innanzitutto, la letteratura non è affatto concorde nell’utilizzare i punteggi dei test scolastici come indicatore delle ‘abilità cognitive’ di una persona. Si tratta di test spesso non comparabili, da nazione a nazione, data la differenza di sistemi scolastici. E si tratta, soprattutto, di campioni di studenti che non sono spesso rappresentativi dell’intera popolazione. Un problema, inoltre, che sembra completamente trascurato dai ricercatori, è quello della direzione di causalità: è il 5% più intelligente che impatta sul benessere di una società? O è piuttosto il benessere di una società a impattare sulla smart fraction?

Un altro risultato è che le capacità cognitive dei leader politici sembrano essere la variabile meno rilevante tra quelle in grado di impattare sul benessere di un Paese. In un passo dell’articolo, viene addirittura suggerita la spiegazione che i politici non vengano scelti tra il 5% della popolazione più intelligente, ma consapevolmente tra quelli più vicini alla media. 

L’argomento dello studio, al di là dei suoi limiti empirici, è di chiaro interesse, soprattutto in chiave di strategie politiche dei governi: pensiamo alla ‘fuga dei cervelli’, tipica per esempio del nostro Paese. Se la teoria della smart fraction dovesse essere dimostrata come valida statisticamente, ci sarebbe di che allarmarsi, per un Paese che perde i suoi migliori talenti e non è in grado di attrarne altri.

Fino a che non verrà trovato, tuttavia, un metodo d’analisi più robusto, questa rimarrà soltanto la teoria suggestiva di un gruppo di psicologi, senza possibilità di applicazioni pratiche e, anzi, con pericolosi rischi di generalizzazione fuorvianti.
È proprio il caso di dire intelligenti pauca.

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