Portineria MilanoFerrante il trasversale: dalla Milano che conta all’Ilva di Taranto

Ferrante il trasversale: dalla Milano che conta all’Ilva di Taranto

L’ex prefetto Enzo Vicari e il sarto Franco Prinzivalli. Bisogna partire da questi due uomini per raccontare e comprendere a pieno la figura di Bruno Ferrante, il presidente-custode dell’Ilva di Taranto, in questi giorni tornato alla ribalta delle cronache per la chiusura su ordine della magistratura dello stabilimento del gruppo Riva. Se ci sono due cose cui Don Bruno (mai soprannome fu più azzeccato per la sua immensa rete di relazioni) non può rinunciare nella vita sono proprio queste: gli insegnamenti di Vicari, che gli fece da mentore negli anni ’80 a Pavia e Milano, e gli abiti adatti per tutte le stagioni sfornati da uno dei sarti ambrosiani per eccellenza.

Su questo doppio binario, che unisce le istituzioni all’arte del vestirsi e alla capacità camaleontica di cambiare casacca in politica, Ferrante ha costruito in quasi quarant’anni una carriera di tutto rispetto. Non è mai riuscito, però, nel vero salto di qualità come invece successo a un’altra allieva di Vicari, l’attuale ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. Ma di una cosa Don Bruno è sempre stato sicuro, sul massimo insegnamento del prefetto siciliano che lo istruì ai meandri del Viminale: la fedeltà allo Stato e agli uomini di potere del capitalismo italiano. 

Del resto, Ferrante è stato funzionario del ministero degli Interni nella metà degli anni ’70, quando al Viminale imperavano la Dc e un certo Francesco Cossiga, nel pieno degli anni di piombo, segnati in modo indelebile dal sequestro di Aldo Moro nel 1978. È stato di stanza a Pavia, quindi capo di gabinetto nella prefettura di Milano negli anni ’80, poi di nuovo vice gabinetto al Viminale negli anni di Tangentopoli (’93) sotto il governo Dini. 

Nel 1994 è nella Polizia come vice capo all’attività di coordinamento e pianificazione. Ma è nel 1996 che Ferrante inizia a contare davvero nelle istituzioni del bel Paese che cambia: sarà capo di gabinetto sotto tre ministri dell’Interno, Giorgio Napolitano, Rosa Russo Iervolino e Enzo Bianco, dove inizia a intrecciare rapporti con il centrosinistra.

Nel 2000 viene nominato prefetto a Milano, dove ci rimarrà fino alla fine del 2005, prima di candidarsi a sindaco, per l’Unione, contro Letizia Moratti. Corre l’anno 2006. La sconfitta con donna Letizia rappresenta forse uno spartiacque nella carriera di questo uomo di stato, una débacle che lasciato forse un segno indelebile in quel ragazzo nato a Lecce nel 1947 che con una laurea in giurisprudenza e un concorso vinto nel 1973 si vede aprire le porte dei segreti di Stato.

Ma qui serve aprire una piccola parentesi. Perché tra un vestito di Prinzivalli (“Con Franco scegliamo anche la stoffa” spiegò una volta), un incontro istituzionale – migliaia e di ogni tipo -, Ferrante ha sempre coltivato una forte ambizione per la politica come per le grandi aziende italiane, in particolare per gli uomini del potere economico. Dalla famiglia Ligresti fino a Cesare Romiti, dalla famiglia Falck fino appunto alla famiglia Riva, che lo ha scelto nel luglio di quest’anno per sostituirla a capo dell’Ilva di Taranto, Don Bruno è sempre stato un ospite di tutto rispetto nei salotti della buona borghesia milanese come in quella romana. Uomo del dialogo per eccellenza, bipartisan e trasversale, capace di mettere in contatto le parti sociali più disparate, dai sindacati alla politica fino alla magistratura, come sta dimostrando in questi giorni all’Ilva.  

In questo si può dire che Ferrante abbia colto in pieno le aspirazioni che erano di Vicari, uomo di stato con la S maiuscola, che ha raccontato nel suo libro «Giuro di essere fedele», la storia di un prefetto della prima repubblica, tra i misteri della P2 di Licio Gelli e la brutalità con cui le Brigate Rosse ammazzavano all’inizio degli anni ’80 giornalisti e magistrati.

Gli uomini di stato fanno in fretta a diventare uomini di potere. Anche se non hanno reali competenze nel mondo della finanza o dell’industria. E infatti Vicari, dopo l’esperienza in prefettura, dopo tre anni alla guida di Fiera Milano, è stato per qualche anno amministratore delegato della società del gruppo di Don Salvatore Ligresti. Lui e l’Ingegnere erano grandi amici, un sodalizio che ha fatto entrare l’ex prefetto nel gruppo ristretto di persone che a Milano in molti hanno soprannominato «il clan di Paternò». Una rete di relazioni che spazia ormai dalle partecipate di comune e regione, fino al ministero della Difesa e alle aziende statali.

Per Ferrante, quindi, entrare in questa cerchia di persone, dove la famiglia La Russa gioca un ruolo non certo secondario, è stato automatico. Non è un caso che negli anni di prefettura a Milano, Don Ferrante vantasse rapporti di tutto rispetto con gli esponenti di Alleanza Nazionale. Tra loro pure il vicesindaco Riccardo De Corato, con cui ha portato avanti diverse battaglie sulla sicurezza nel capoluogo lombardo. Anzi, va pure annotato che nel 2005, quando Gabriele Albertini aveva annunciato che non si sarebbe ricandidato, proprio a Ignazio venne l’idea di candidare Ferrante a sindaco di Milano.

Le decisioni di Silvio Berlusconi, però, furono altre e si puntò su Letizia Moratti. Eppure, in quelle cene nei salotti della Milano che conta, borghese, cattolica e silenziosa, dedita alle messe nella chiesa di piazza San Babila e a qualche pizza al ristorante da Gennaro dietro palazzo Marino, Ferrante ha sempre espresso il suo sogno di diventare un giorno sindaco della città della Madonnina. Doveva essere il trampolino di lancio per la politica nazionale, una nuova spilla da appuntare sui costosi vestiti di Franco. Cossiga, del resto, lo aveva detto: «Ferrante è stato un mio giovane collaboratore quando ero ministro degli Interni e chi ha lavorato con me può fare tutto eccetto il Papa».

Prima della fine del 2005 nel centrosinistra sembrava che i giochi fossero chiusi: il candidato doveva essere l’oncologo Umberto Veronesi. Ma qualcuno iniziò a storcere il naso. Tra questi Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto, e l’attuale presidente del consiglio comunale Basilio Rizzo. In sostanza, la sinistra più radicale mise in difficoltà l’Unione di Romano Prodi, costringendola a trovare un nuovo candidato capace di vincere dopo quindici anni di governo di centrodestra.

A Francesco Rutelli venne allora l’idea di contattare Ferrante e lanciarlo nella mischia. Il calcolo non era neppure sbagliato. L’ex prefetto avrebbe potuto prendere qualche voto nell’area cattolica e liberale. Ma non andò così. «Lo sbirro» come lo apostrofavano i centri sociali o «un vice capo della polizia con un governo di centrodestra», come disse Franca Rame, la moglie del Nobel Dario Fo che perse le primarie contro l’ex prefetto, non riuscì a superare lo scoglio Moratti. Neppure il sostegno di Massimo e Milly, l’altro ramo interista della famiglia meneghina, servì a qualcosa. 

E così Ferrante, nel giugno del 2006, si ritrovò a piedi. Lui, che era stato nella cabina di comando del potere, era diventato un semplice capo dell’oppisizione nel comune di Milano. Ci mise poco a fare armi e bagagli e a riappropiarsi del suo passato. In qualità di consulente, trovò aperte le porte del gruppo Ligresti che ritrovò in lui sia gli insegnamenti di Vicari sia la rete di relazioni che Ferrante vanta persino nei quotidiani: Don Bruno è consigliere nella Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte insiame con il direttore del Corriere della Sera Ferruccio De Bortoli e il giornalista Aldo Grasso. 

Dopo il passaggio al gruppo Ligresti arriva l’incarico ottenuto dal governo Prodi nel 2007 i n qualità di Alto Commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione. Poi, però, dopo appena sei mesi decide di lasciare, per approdare come presidente in Fibe e Fibe Campania, controllate del gruppo Impregilo, attive nel settore rifiuti, nel pieno dell’emergenza. Al solito, «la sua doveva essere una figura di chiarezza e garanzia». Ma le cose non andarono bene. Come non stanno funzionando in questi giorni all’Ilva. 

A Taranto ci è approdato grazie all’amicizia con la famiglia Riva: lamoglie Liana è tarantina doc, ma anche perché – spiegano i maliziosi pugliesi – l’azienda ora sotto sequestro doveva darsi una nuova immagine dopo la raffica di scandali giudiziari per inquinamento ambientale degli ultimi anni. Serviva un uomo di stato, uno con i vestiti di Prinzivalli, con una forte capacità relazionale, obbediente, dedito alla causa. Il Gip lo ha rimosso dal ruolo di presidente, ma lui ha già presentato ricorso. Ferrante lo sa: «Giura di essere fedele».

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