La campanella è suonata per tutti e anche quest’anno si torna sui banchi e nelle aule, dagli asili alle università. Ma quanto costa l’istruzione dei propri figli ai genitori italiani? Dalla tenera età fino ai 25 anni, l’investimento, in media, supera i 44 mila euro per ogni pargolo. Cifra che, ovviamente, bisogna raddoppiare o triplicare per le famiglie più numerose. Pagare l’istruzione di due o tre figli, insomma, può costare quanto un monolocale in centro a Milano.
Partiamo dai primi mesi di vità del bebè, quando la mamma deve tornare a lavoro dopo il periodo di maternità. Nella diffusione dei servizi per la prima infanzia, gli asili nido quindi, l’Italia è tra gli ultimi Paesi d’Europa. Uno sviluppo insufficiente, si legge sul report dell’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva, «strettamente connesso alla visione tradizionale della “cura” dei bambini, delegata esclusivamente alla famiglia». Come scrive anche Maurizio Ferrera nel Fattore D, in Italia non siamo messi male per le cosiddette scuole per l’infanzia destinate ai bambini dai tre ai sei anni. Anzi, in questo caso i nostri tassi di copertura sono fra i più alti d’Europa, intorno al 90 per cento. Il grosso buco esiste prima dei tre anni. In base alla media nazionale, solo l’11% dei bambini va al nido, ventuno punti in meno rispetto ai numeri raccomandati dalla strategia di Lisbona del 2002.
Nonostante la copertura vari dal Centro-Nord (15%) al Sud (2%), gli asili nido nel nostro Paese sono presenti soprattutto nelle città e vengono ancora percepiti come una specie di “ultima spiaggia” per i genitori che lavorano. In Europa, in testa per la diffusione di servizi per la prima infanzia si piazzano Danimarca, Svezia e Islanda, con una copertura di posti del 50% dei bambini di età tra 0 e 3 anni, seguiti da Finlandia, Paesi Bassi, Francia, Slovenia, Belgio, Regno Unito e Portogallo. L’Italia si trova davanti solo a Paesi come Polonia e Repubblica Ceca. E il tempo pieno (9 ore al giorno) viene garantito dall’85% degli istituti, mentre in ben 17 capoluoghi viene fornito solo il servizio ridotto (6 ore al giorno).
Un capitolo a parte è rappresentato dai costi. Per i nidi pubblici, sono previste rette differenziate in base al reddito. Ad oggi, il prezzo viene determinato nel 75% dei casi in base all’Isee (Indicatore situazione economica equivalente), nel 20% dei casi in base al reddito familiare e nel restante 5% la retta è unica. Le famiglie con redditi molto bassi possono non pagare alcuna retta, ma quelle con redditi medi arrivano anche a sborsare ogni mese fino a 500 euro. Facendo una media, comunque, il prezzo di un nido comunale per una famiglia si aggira intorno ai 300 euro che, considerati i dieci mesi di frequenza, diventano 3.000 a fine anno (dal 2005 i costi sono aumentati del 4,8%).
L’indagine dell’Osservatorio prezzi e tariffe di Cittadinanzattiva, ad esempio, ha considerato una ipotetica famiglia di tre persone con un reddito annuo di 44.200 euro, al quale corrisponde un Isee di 19.900 euro. In questo caso, la spesa media mensile per la retta del nido a tempo pieno ammonta al 12% della spesa media mensile. Un salasso, se si pensa che, ad esempio, in Svezia esiste un tetto del 3% di spesa garantito per legge (la maxtaxa). Ma il costo per i genitori varia da regione a regione. La più economica è la Calabria, con una retta media mensile di 110 euro, mentre le più care sono Valle D’Aosta (405) e Lombardia (400). Nella top ten delle città più care, tra quelle che offrono il servizio a tempo pieno, ci sono Lecco (537 euro), Belluno, Sondrio, Bergamo, Mantova, Cuneo, Forlì, Udine, Pisa e Pavia. Tra le più economiche, Catanzaro (80 euro), Vibo Valentia, Caglia, Roma, Reggio Calabria, Chieti, Venezia, Salerno, Ferrara, Avellino.
Con la legge 1044/1971, il governo italiano aveva stabilito un piano quinquennale per l’istituzione di almeno 3.800 asili nido comunali da completarsi entro il 1976. Secondo i dati più recenti forniti dal Ministero dell’Interno, però, nel 2009 esistevano ancora 3.424 asili nido comunali. A distanza di quasi quarant’anni, non è stato ancora raggiunto il numero minimo previsto dalla legge. E, in media, il 25% dei richiedenti un posto rimane in lista d’attesa. La situazione peggiora al Sud: il 60% dei nidi comunali è concentrato nelle regioni settentrionali, il 27% in quelle centrali e solo il restante 13% in quelle meridionali. E se i comunali sono pochi, non resta che affidarsi ai privati. Con costi che, a seconda dei servizi – tempo pieno o part-time, fornitura di pannolini, pasti – e della regione in cui si trovano, variano dai 350 agli 800 euro.
Al compimento dei sei anni, arriva la scuola materna. O scuola dell’infanzia che dir si voglia. In questo caso l’Italia è ben attrezzata (90% della copertura). Tanto che il 98% dei bambini tra i 3 e i 5 anni risulta iscritto. E i costi scendono. La retta annuale media per le scuole dell’infanzia pubbliche, in base ai dati dell’”Osservatorio periodico sulla fiscalità locale” della Uil, è di 324 euro, con una incidenza media sul reddito annuo del 10 per cento. Nella top five delle città più care, ci sono Bolzano (478 euro), Aosta (459), Torino (453), Potenza (418) e Firenze (412).
Dall’asilo alla scuola, scendono i costi di iscrizione. E se ne aggiungono altri. A partire dai libri. Quest’anno, poi, con l’introduzione dei testi misti (cioè con una parte dei contenuti online), il Codacons ha stimato che ogni famiglia si troverà a spendere in media 80 euro in più rispetto all’anno precedente.
Ogni anno il ministero dell’Istruzione prevede tetti massimi di spesa per l’adozione dei libri di testo nelle scuole. Che però, spesso, restano solo sulla carta. In base al documento firmato dal ministro Francesco Profumo l’11 maggio 2012, la spesa per i libri dei cinque anni della scuola primaria ammonta a 147,20 euro. Per un ragazzo delle medie, le cifre da stanziare tra libri e vocabolari, oscillano invece tra i 294 del primo anno ai 132 dell’ultimo, per una spesa media di 181 euro all’anno. Per chi va alle scuole superiori la cifra varia in base alla scuola scelta. Il più caro è il liceo classico, con punte di 382 euro solo per il terzo anno. E dal ginnasio alla maturità, si spendono 1.550 euro (Fonte: Altroconsumo) solo per i libri.
A questi costi vanno aggiunte le spese per il cosiddetto “corredo scolastico”. Grembiuli, zaini, astucci, matite, penne e quaderni. Secondo un’indagine di “Altroconsumo”, per l’anno scolastico 2012-2013 i prezzi sono aumentati del 5 per cento. La spesa media nella grande distribuzione per i prodotti di marca è di 106 euro a testa, nei negozi tradizionali 137.
Per iscriversi a una scuola statale, non bisogna pagare alcuna tassa. In virtù dell’obbligo scolastico fino ai 16 anni, la tassa d’iscrizione è regolata dalla legge che prevede il versamento solo per le classi quarta e quinta superiore. Negli ultimi due anni lo studente è obbligato a pagare le tasse scolastiche distinte in tributi di iscrizione (6,04 euro), di frequenza (15,13 euro da pagare ogni anno), d’esame (12,09) e di diploma (15,13 euro).
Molte scuole, però, chiedono comunque il versamento di un’altra imposta, direttamente sul conto corrente della scuola. Si tratta del cosiddetto “contributo scolastico”, che solitamente si aggira intorno ai 100 euro. Si tratta di un contributo volontario che viene dato al momento dell’iscrizione e che è facoltativo e non obbligatorio (come invece spesso viene fatto credere). Sono soldi che servono a garantire il buon funzionamento della struttura scolastica e che sono detraibili al 19% dalle tasse dei genitori.
Discorso a parte per le scuole private, che prevedono rette molto alte. Si va dai 2.500 ai 3.500 euro all’anno degli istituti cattolici ai picchi di 6 mila euro per le scuole laiche. E in questi istituti le iscrizioni non calano. Anzi. Tra l’anno scolastico 2004/2005 e 2010/2011, le scuole primarie private hanno visto un aumento dell’8% degli studenti, contro l’1,8% delle scuole pubbliche. Alle medie, il rapporto è 12,3% contro l’1,1%. Alle superiori, 7,3% contro 0,2%. A incidere sulle scelte dei genitori, secondo alcuni, sarebbero stati il taglio al personale, l’aumento del numero di alunni per classe e la situazione degli alunni disabili, meno seguiti di alcuni anni fa.
Si arriva poi all’università. La spesa media italiana per mantenere un figlio studente si aggira intorno ai 24 mila euro in cinque anni, da suddividere tra tasse universitarie (4 mila euro in media) e altre spese, come i libri, i computer, l’affitto ecc. Le tasse universitarie generalmente variano in base a cinque fasce di reddito, stabilite sull’ammontare del modulo Isee (Indicatore situazione economica equivalente): la prima fascia copre un reddito fino a 6mila euro, la seconda fino a 10mila, la terza 20mila, la quarta 30mila e la quinta il massimo.
La spesa, però, oltre che per fascia di reddito, varia anche in base alla facoltà alla quale si è iscritti e al singolo ateneo. In genere, come sottolinea il Rapporto Federconsumatori sull’Università del 2011, le facoltà scientifiche costano più di quelle umanistiche (con un aumento che va dal 2 all’8,5%). Prendiamo ad esempio l’università di Bologna. Il costo di un anno del corso di laurea in lingue e letterature straniere ammonta a 1.417 euro. Quello di biotecnologie tocca quota 2.000 euro. Il tutto senza le tasse regionali, che in Emilia Romagna ammontano a 349,65 euro.
Le rette universitarie, poi, cambiano anche da regione a regione. Gli studenti del Nord pagano in media il 28,3% in più. Divario che si fa ancora più evidente prendendo in considerazione l’ultima fascia, quella dei redditi più alti: in questo caso le università del Nord risultano più care del 60% rispetto a quelle del Sud. Di conseguenza, spiega Federconsumatori, non dover dichiarare il proprio reddito – rientrando quindi automaticamente nella fascia più alta – costa di meno al Sud. Prendendo in considerazione invece la prima fascia, l’ateneo più caro è quello di Parma, con un +103% in più rispetto alla media nazionale. Al secondo posto si trova Verona, seguita da Milano. Le università più economiche sono invece la “Aldo Moro” di Bari (290 euro), la “Alma Mater Studiorum” di Bologna (304 euro) e l’università del Salento (317 euro).
Per garantire il diritto di studio, sono però previste delle borse assegnate seguendo criteri di condizione economica in primis, e poi di merito. Nell’anno accademico passato, l’importo medio delle borse è stato di 3.177 euro a livello nazionale, con un picchio di 3.639 euro in Emilia Romagna. I fuori sede, ovviamente, ricevono assegni più alti, con una media di 4.701 euro. Il totale degli studenti aventi diritto alle borse nello scorso anno accademico è stato di circa 1,8 milioni, con un massimo di 20.701 in Sicilia.
I costi universitari, ovviamente, variano tra studenti in sede, pendolari e fuori sede. E anche qui, esiste un divario netto tra Nord e Sud, soprattutto per quanto riguarda il prezzo di affitto delle case. A Milano, ad esempio, per una stanza singola si possono anche spendere 650-700 euro al mese. A Cosenza il massimo è di 200-250. In media, in cinque anni si spendono 9.000 euro per l’alloggio, 3.000 euro per il vitto e 1.000 per il trasporto. Allo scontrino, vanno aggiunte anche le spese di iscrizione ai test universitari per i corsi di laurea a numero chiuso. La somma richiesta varia dai 30 ai 100 euro, con picchi più alti per le facoltà scientifiche. E solo per fare il test di ingresso di medicina si possono spendere anche 1.000 euro. Con l’alto rischio, tra l’altro, di non essere neanche ammessi.