Le manifestazioni operaie in Italia hanno sempre fatto arricciare parecchi nasi, e purtroppo il vizietto di sparare addosso ai lavoratori appare antico. La tradizione risale a Bava Beccaris, ma gli emuli si sono dati ben da fare. Uno dei casi più sanguinosi e meno conosciuti (forse non a caso) accadde a Trieste nel settembre 1920. Non si sa nemmeno con precisione quale sia stato il bilancio finale: 9 operai uccisi (ma altre fonti dicono 12), 70 feriti (250 secondo altri), 550-600 arresti. All’elenco delle vittime va aggiunta una guardia regia linciata dalla folla. All’inizio di quel settembre la situazione è calda in tutta Italia. Gli operai metallurgici (poi sarebbero diventati metalmeccanici) sono in subbuglio, occupano fabbriche, si registrano incidenti a Napoli, Genova e Torino, grosse manifestazioni a Bergamo, Brescia, Firenze e Livorno. Diversamente che nel resto d’Italia, a Trieste e nella Venezia Giulia viene dichiarato uno sciopero generale per il 3 settembre. Qui la situazione è ben più tesa che altrove: non sono passati neanche due mesi dall’incendio dell’hotel Balkan, il 13 luglio, sede delle associazioni slovene di Trieste, in cui è morto il farmacista sloveno Hugo Roblek, mentre poco prima ci aveva lasciato la pelle un ufficiale dei carabinieri, Luigi Casciana, ucciso dalle schegge di una granata. Possiamo anche aggiungere che l’8 settembre Gabriele D’Annunzio, nella non lontana Fiume, proclama la Reggenza del Carnaro.
San Giacomo è il quartiere più popolare di Trieste: ci vivono gli operai della vicina Ferriera di Servola (esiste ancora) e dei cantieri navali. Sono socialisti, repubblicani e anarchici; molti sono sloveni, anzi forse gli sloveni sono più degli italiani, ma in nome dell’internazionalismo proletario le differenze etniche vengono cancellate. Ovvio che durante lo sciopero generale il quartiere sia in subbuglio. Socialisti da una parte, carabinieri e guardie regie dall’altra, con i fascisti che si buttano a capofitto nella mischia, agendo a modo loro contro i “rossi”. Il Lavoratore, quotidiano dei socialisti della Venezia-Giulia, come recita il sottotitolo, (è il vecchio giornale socialista che usciva già ai tempi dell’Austria) nei giorni dello sciopero non viene stampato, ma lunedì 6 settembre esce un foglio che riporta nella testata: Bollettino del direttorio dello sciopero. Il titolo di apertura, a tutta pagina, recita: “La brigantesca aggressione alla Camera del lavoro”, mentre a mezza pagina un altro titolo dice: “I carabinieri danno l’assalto alle nostre istituzioni”, e il catenaccio: “Gravi incidenti con la forza pubblica. Un giovane innocente ucciso”. Ai funerali del ragazzo, ammazzato da un colpo di pistola, scoppieranno nuovi incidenti.
Sull’inizio dei fatti più gravi, le versioni fornite dal borghese e nazionalista Piccolo e dal socialista Lavoratore, stranamente convergono. In una località vicina a San Giacomo, detta “Campanelle” (oggi la città si è mangiata ogni spazio) si riuniscono un centinaio di attivisti socialisti. Il Piccolo dice nell’osteria “Gloria”, per sottolineare il ruolo che gioca il vino («lo stato di ebrietà che li possedeva era evidente»), il Lavoratore afferma in un circolo culturale. Probabilmente avevano ragione tutt’e due, perché spesso i circoli culturali erano ospitati nelle osterie. La riunione si era sciolta, i partecipanti stavano tornando a casa. Così il Piccolo ricostruisce i fatti: «Erano circa le diciotto. Il gruppo di testa udì il rombo di un motore che annunziava l’apprestarsi di un’automobile. In quell’attimo si levò un grido. Disse taluno: “Xe i fascisti”. Così immediatamente il gruppo si sciolse e una parte dei giovani che lo costituivano si pose a destra della strada e a sinistra l’altra parte. Subito dopo l’automobile si affacciò. Non erano fascisti, erano guardie regie. E al loro giungere vennero accolte da numerosi colpi di rivoltella. Il camion si fermò di botto. Gli agenti imbracciarono i moschetti e fecero fuoco. Nacque un gran tumulto». A questo punto divampa la battaglia: i lavoratori vengono affiancati da altri loro compagni, nuovi drappelli di agenti corrono a dar man forte ai colleghi.
Scrive il Lavoratore: «Il conflitto era stato determinato dalla notizia che i fascisti sarebbero venuti a far una scorreria per quella località. Capitò invece il camion delle guardie regie e fu preso in sbaglio in un subitaneo attacco da parte di un centinaio di giovani». Il combattimento dura circa un quarto d’ora, poi vengono sgomberati i feriti e un certo numero di arrestati, mentre i lavoratori si dirigono verso Campo San Giacomo, ancor oggi un grande slargo con tre principali vie d’accesso. Lì vicino sono parcheggiati tre grandi carri carichi di immondizie che vengono presi e rovesciati a mo’ di barricate. A questo punto si scatena una vera e propria guerriglia, con assediati e assedianti che si sparano addosso. Gli operai utilizzano soprattutto pistole e granate a mano, armi che evidentemente avevano nascosto in casa, i carabinieri e le guardie usano i fucili (ma a risolvere la situazione saranno i cannoni, lo vedremo poi), con la chiesa, divenuta territorio neutro, utilizzata per ricoverare i feriti.
Il Piccolo di giovedì 9 settembre titola: “I tumulti e i sanguinosi conflitti di ieri nel quartiere di San Giacomo”. Il catenaccio sottostante precisa: “Due morti e una trentina di feriti. Sciopero generale per ventiquattro ore”. E venerdì 10 il medesimo quotidiano apre a tutta pagina: “Nuovi sanguinosi conflitti tra rivoltosi e forza pubblica nel rione San Giacomo”. E il catenaccio: “Le organizzazioni socialiste deliberano il ritorno al lavoro”. Evidentemente ci si era resi conto che la situazione era ormai incontrollabile. Si spara dalle finestre, si risponde sparando verso le finestre. Il Lavoratore dà conto di alcune delle vittime: «Matteo Crevessich, di anni 72, abitante in Campo San Giacomo n. 17, mentre si trovava in casa sua fu colpito alla testa da una palla di fucile entrata dall’abbaino. Romeo Primosich, di anni 40, abitante in via Settefontane 292, mentre passava per via della Tesa fu colpito alla testa da un colpo di fucile. Carmela Zovotnich, di anni 20, abitante in via Paolo Diacono 7, si recava in cucina al terzo piano per prendere acqua. Un gruppo di regie guardie che si trovavano in istrada, avendo scorto da dietro i vetri della finestra la ragazza, le spararono una scarica di fucileria. Un proiettile la colpì alla tempia sinistra». Un’altra ragazza, Margherita Boite, di 29 anni, viene uccisa mentre è in casa del fidanzato. Lo racconta il Piccolo. «I due fidanzati si alzarono dalle sedie accostate e si fecero alla finestra per chiuderne le imposte. Il giovane, così come le imposte si accostavano, con la mano destra cinse il collo dell’amata per attirarla a sé. Fu un attimo. Un proiettile entrò nell’occhio destro della donna e uscendo al di sotto dell’orecchio destro, mentre freddava lei, fracassava due dita della destra del giovane».
Ma perché tanto accanimento? Una chiave di lettura, davvero interessante, la fornisce il Lavoratore. «Si parla sempre di jugoslavi, di austriacanti, di antiitaliani, di traditori, di venduti. Con questa educazione della stampa borghese locale quali possono essere le conseguenze? Che guardie regie e carabinieri in ognuno di noi anziché vedere un socialista italiano, vede uno jugoslavo o un austriacante, e basta. Dunque giù botte da orbi al “nemico”. Sono persuasissimi che qui a Trieste i cittadini che non vanno i frack o non bazzicano la Camera di commercio, sono tutti degli austriaci, cioè degli austriacanti nemici dell’Italia». Il bello è che, pur deplorandola, il quotidiano socialista descrive una situazione reale: l’irredentismo era stato proprio di una fascia ristrettissima della popolazione, italofona e borghese; mentre il 90 per cento, o forse anche di più, dei triestini, sia di lingua italiana, sia di altre madrelingue (a Trieste prima del 1918 si stampavano quotidiani in quattro diverse lingue) erano assolutamente fedeli all’Austria. Improbabile che a due anni dalla fine del conflitto i loro sentimenti fossero radicalmente cambiati.
Comunque per spezzare la resistenza degli operai di San Giacomo interviene l’esercito. La brigata Sassari fa entrare in azione alcuni cannoni e due autoblindi. “Come venne effettuata l’occupazione militare del quartiere di San Giacomo”, titola il Piccolo di sabato 11 settembre, mentre il catenaccio precisa: “Tre colpi di cannone. Tre morti e numerosi feriti. Si conferma la ripresa del lavoro”. Un editoriale annuncia trionfante la fine delle «torbide giornate di delirio sovversivo». La rivolta operaia è repressa. L’ordine regna a Trieste, ma, come nota lo storico Lucio Fabi, avviene una frattura insanabile: «Per i soldati della brigata Sassari si era forse concluso un periodo storico. Erano andati in guerra per Trento e Trieste, si erano coperti di sangue e di gloria sul Carso e sugli Altipiani, e ora, a Trieste, la città redenta, sparavano su quella stessa gente per la cui liberazione avevano combattuto».