Due anni e mezzo dopo essersi insediato al Numero 10 di Downing Street, per David Cameron è giunto il momento di chiedersi da che parte intenda indirizzare il mandato da Primo ministro britannico. Martedì ha rimescolato le carte nel suo governo, varato nel maggio 2010 dopo aver raggiunto un accordo di coalizione con i liberaldemocratici all’indomani di una elezione in cui i conservatori non erano riusciti ad ottenere la maggioranza assoluta a Westminster: evaporata a poche settimane dall’apertura dei seggi, quando Cameron ha iniziato a giocare carte compassionevoli, come il disegno di Big Society che non ha trovato riscontro pratico nemmeno dopo le rivolte della scorsa estate.
Oggi il dubbio non è tanto l’amletico “essere o non essere”, quanto il “che cosa essere?”. I sondaggi indicano che i conservatori rincorrono i laburisti (secondo YouGov si muovono in un distacco che oscilla tra il 6 e l’11%), tenendo conto che il partito guidato da Ed Miliband non sta facendo nulla per mettersi in mostra, se non godere degli inciampi della maggioranza. Poi c’è l’opposizione interna, capeggiata dal sindaco di Londra Boris Johnson, sulla scia della popolarità garantita dalle Olimpiadi 2012.
Reshuffle, rimpasto: se per i giornali di sinistra come il Guardian o di tendenze liberal come The Independent Cameron ha svoltato a destra, negli ambienti conservatori il dubbio amletico persiste. Lunedì sera il Cancelliere George Osborne, al quale è stato affidato il delicato compito di riassettare l’economia del regno, era stato salutato con fischi dal pubblico delle Paraolimpiadi una volta inquadrato nello schermo dello stadio, ma ha potuto comunque dormire abbastanza sereno: il suo posto da ministro non è stato occupato da altri, nonostante alla vigilia del cambio della formazione titolare il suo nome fosse entrato nella rosa delle potenziali sostituzioni.Il fantasma che aleggia è quello della double dip recession, venuto a galla a fine luglio quando gli ultimi dati raccolti sullo stato delle cose avevano dimostrato che l’economia non è ripartita, che «l’austerity potrebbe prolungarsi fino al 2020» (parole di Cameron in persona), che i tagli alla spesa pubblica e al welfare state non hanno giovato.
È la ripresa che manca di fronte ad un calo del prodotto interno lordo dello 0,7% registrato nel secondo quadrimestre del 2012. In compenso è arrivata la nomina di Andrew Mitchell a nuovo chief whip del governo: avrà l’incarico di assicurare che tutti i deputati della maggioranza siano presenti alle votazioni alla House of Commons seguendo le indicazioni del partito. Osborne spera così di potersi muovere con più sicurezza su un terreno accidentato tra mugugni e continue richieste di apportare modifiche al piano originale. In attesa, anche in questo caso, di capire quale sarà. Con buona pace degli alleati liberaldemocratici: non solo il loro consenso è ai minimi storici, vedendosi tallonati se non superati negli ipotetici scenari elettorali dello Ukip, il movimento libertario/conservatore di Nigel Farage che trova consensi nell’elettorato Tories deluso e che arriva a sfiorare il 9%, ma confidandosi con il Daily Mail alcuni parlamentari conservatori hanno commentato che il futuro degli alleati di governo non li riguarda. Inoltre Jeremy Hunt è stato promosso da ministro della Cultura a Health Secretary al posto di Andrew Lansley, che aveva varato una riforma del sistema sanitario nazionale a nome della coalizione svanita nel nulla. E nel curriculum politico di Hunt risaltano le posizioni sull’aborto: il nuovo titolare del dicastero vorrebbe restringere da 24 a 12 le settimane limite previste dalla legge.
Ovviamente Cameron sa bene che non può fare a meno, numericamente, di Clegg e soci, ma sa altrettanto bene che è il momento di tornare ad indossare l’elmetto e dare una svolta alla sua strategia. Torna alla ribalta l’etichetta di “flip-flop”, attribuitagli dai critici ai tempi della corsa alla leadership del partito, anno 2005: un voltafaccia, opinioni labili che cambiano a seconda del tempo. «Stop pussyfooting around»: è l’appello lanciato a Cameron da Johnson lo scorso 15 agosto dalle colonne del free press Evening Standard. Smetterla di fare il timoroso, assumere una decisione chiara e rimboccarsi le maniche.
Il sindaco di Londra a differenza del Primo ministro ha pure un obiettivo in mente in questa battaglia combattuta a colpi di dichiarazioni spinose che fa apparire davvero lontana nel tempo l’amicizia che accumunava i due: si tratta dell’aeroporto da costruire fuori dalla città, verso la foce del Tamigi, che vada ad aggiungersi ad Heathrow e che è al centro del dibattito per l’ampliamento della linea stradale che conduce allo scalo internazionale. Un’opera che era contrastata da Justine Greening, fino a martedì Transport Secretary, sostituita da Patrick McLoughlin: l’ottavo ministro ai Trasporti in otto anni nella recente storia politica britannica. La mossa di Cameron lascerebbe intendere che il governo abbia in mente di ampliare Heathrow, «semplicemente una pazzia» per Johnson. Mossa che potrebbe provocare anche qualche mal di pancia nella maggioranza, dal momento che Zac Goldsmith, parlamentare per la circoscrizione di Richmond Park, ha minacciato di dimettersi, mettendo in palio il proprio seggio che, di fronte al trend delle ultime settimane, finirebbe in mano laburista. Goldsmith ha ricordato come nel programma del governo non fosse previsto alcun intervento nell’area di Heathrow e ha chiesto chiarezza.
Se però la domanda non è “essere o non essere?”, ma piuttosto “che cosa essere?”, è molto più probabile che invece di una risposta gli giunga la conferma di un flip-flop Cameron. La rotta della nave Tory non è segnata sulla mappa.