Quello che serve al Made in Italy? Un Export Compact

L’export italiano e la cattiva politica

Nelle economie avanzate l’export è spesso una safety car che viaggia con successo per qualche anno. Può essere una forma di doping e usata male può creare assuefazione, ma può anche diventare una medicina che allevia alcuni dei mali di un calo momentaneo dei consumi interni, che oggi sembra inesorabile. Nella lunga corsa verso l’estero, le variabili e gli elementi su cui si può far leva sono tanti, e riguardano le imprese, i mercati ma soprattutto i governi.

Imprese
Il calo delle esportazioni italiane verso l’Europa
(-8%) è un cartello che indica una strada in salita per le nostre piccole medie imprese sempre più costrette a rivolgersi a mercati lontani, sostenuti da una consistente crescita demografica e da economie avvantaggiate da un costo molto ridotto dei fattori di produzione, dalle materie prime al lavoro. Il mercato interno o vicino (Italia/EU) fermo, e quelli lontani (Brics) in crescita, sono un combinato disposto che costringe le Pmi ad accettare l’export come soluzione sempre più necessaria ma più che mai difficile. Perché?

Le imprese italiane che esportano hanno caratteristiche eterogenee. Poche, qualche migliaio, “esportano bene”: lo fanno con abitudine da diversi anni. Hanno dimensioni sufficienti per estrarre valore dai prodotti venduti, creando economie di scala, o tutte interne o sviluppate con una catena di produzione anche lunga e multinazionalizzata (design, lavorazione, assemblaggio, finissaggio, vendita…). Si servono di canali di vendita efficaci, ed esportano contemporaneamente in diversi mercati, riuscendo così a compensare l’eventuale calo dell’uno con la crescita dell’altro. Ce ne sono quasi 200mila che esportano abitualmente, spesso senza una precisa strategia e con uno scopo diverso dalla creazione di valore: la compensazione dei fatturati italiani.

Queste, altrettanto spesso, esportano in un solo paese, al massimo in due e raggiungono questi mercati con l’unico vantaggio del “made in Italy”, quindi di prodotto, e più raramente con il vantaggio di costo (appesantito dall’energia e dal lavoro). Lo fanno però in maniera anche casuale, senza un metodo di scelta rigoroso. Pur varcando i confini nazionali non hanno dimensioni sufficienti da creare ampi margini di profitto, e per queste l’export è solo una diversa fonte di fatturato, rivelandosi solo di rado anche una fonte di guadagno, perché l’export costa (e non solo per i tassi di cambio). Ci sono poi 300mila imprese che esportano, spesso una sola volta l’anno, poche quantità dei propri prodotti, generando un fatturato medio che si aggira tra i 20 e 30mila euro l’una.

Il pacchetto export è più o meno questo, e benché il Piano Nazionale Export parli di buone performance delle nostre imprese manifatturiere – il segno positivo della bilancia commerciale è viziato da una crescita “al ribasso” dovuta al calo delle importazioni – vediamo che la strada da fare è ancora lunga, ed è lastricata di problemi connaturati alla cultura d’impresa che le nostre Pmi si portano dietro da anni. Esportare bene e farci utili è ben diverso da coprire un calo del 25% del “fatturato Italia” con un 15% di “fatturato estero”, soprattutto quando il provincialismo di cui la nostra impresa è intrisa inibisce da qualsiasi forma aggregativa che ne migliori la condizione dimensionale. Essere più grandi vuol dire infatti assorbire meglio i costi di esportazione, creare economie di scala foriere di valore, e avere la capacità di provare ad esportare in mercati diversi.

Le buone imprese esportatrici sono oggi quelle che crescono di più – anche in Borsa – e le poche che assumono. Ma sono molto concentrate nella prima fascia descritta. Per le altre c’è da fare un grande balzo in avanti, benché lo sforzo che si chiede loro non possa essere compiuto in solitaria.

Mercati
Il campo da gioco delle nostre imprese esportatrici
è sempre più accidentato. Se prima venivano portate al largo galleggiando sulla svalutazione della lira, oggi la nemesi dell’alta marea dell’euro rende l’esportazione persino più difficile verso quelle che sono le nuove terre promesse dell’export. Oltre ai problemi di credito che si portano dietro anche quando escono dall’Italia – il credito all’export costa di più che altrove perché il denaro costa di più – sulle spalle di una Pmi gravano le tasse e la burocrazia che ben conosciamo, cui si aggiunge un fattore negativo che dal crollo del Muro di Berlino nel 1989 non eravamo più abituati a considerare: il rischio Paese. Non è solo la Primavera Araba a disorientare le Pmi italiane che vanno all’estero, ma può esserlo una crisi politica con l’India o un calo dei consumi in Cina.

La nuova regola è diventata l’instabilità, perché nemmeno il mantra dei Bric si può considerare un elemento stabile o affidabile. Per questo alle imprese che si tuffano di testa nei mercati esteri si chiede, oltre alla copertura del rischio, una struttura resiliente, capace di assumere forma, strategie e posizioni mutevoli al cambiare delle tendenze dei mercati. Le dinamiche fuori controllo dei mercati finanziari, incrociate con una buona manciata di protezionismo, usato da molti per combattere la crisi, obbligano le Pmi a munirsi di un ventaglio di azioni just in time da sortire quando la situazione lo richiede.

Governo
L’export non è un successo imputabile a buone scelte della politica,
anzi. In barba a queste difficoltà esogene ed endogene, spesso per caso, sempre per forza più che per amore, esportare è ormai una necessità avvertita anche dalla politica. Un’azione intrapresa anche alla disperata, per sopravvivere assicurando ordini e produzione, ma sempre a carico delle imprese. Occorre prima di tutto che la politica analizzi le performance dell’export con onestà, considerandolo un vantaggio ed un piccolo grande successo per le imprese, delle imprese, perché l’avverbio dell’export è “nonostante”: nonostante la politica, la burocrazia, le tasse, le banche. Così come i successi nelle acquisizioni estere – si legga la vicenda recente di Granarolo – non avvengono certo per il merito della politica.

Tra alti e bassi, le scelte della politica sull’export non sono state una garanzia di stabilità ed efficienza: la moltiplicazione dei livelli di governo seguita alla Riforma del Titolo V ha infatti allargato le già ampie sacche di inefficienza generate dalle attività svolte a tutti i livelli di governo, da quelli centrali fino a quelli locali, all’insegna del “tanto rumore per nulla”. Il risultato, parlano i sondaggi, sono Pmi che vanno all’estero sole e confuse di fronte alla frammentazione dei soggetti operanti nella promozione.

Nonostante questo, dopo la caduta del 20% nel 2009 siamo tornati a una quota export del valore di 390 mld € (sarebbero 470 se comprendessimo i servizi). Senza che lo Stato si sia accorto di quali settori sarebbero più da incentivare (alimentare e arredo, avendo le produzioni più frammentate pur restando competitivi), ora viene proposto come target per il 2015 il valore di 600 mld € (150 miliardi di € di export aggiuntivo 30% del Pil): un obiettivo certamente ambizioso, ma difficile da raggiungere senza le pari condizioni degli esportatori francesi (100 mila ma più grandi) o tedeschi (300 mila ma più forti e di nicchia), dove il coordinamento nell’assistenza all’export è forte, organizzato, metodico e semplice.

Politica, governi ed enti hanno usato male questi dieci anni “costituenti” per l’export. Mentre il primo problema per esempio della piccola metalmeccanica di Varese è stato individuare il cliente tedesco da cui spuntare il prezzo migliore per fornirgli la componente indispensabile per la fabbricazione di una qualche auto (gli eroi della subfornitura sono tanti), ogni governo ha promesso più fondi per la promozione (la soluzione è davvero efficiente?) ed è stato quello “decisivo” per l’avvio della famosa Cabina di regia per l’export.

Mentre le nostre Pmi lasciavano sul campo i “competitor di costo” con il vantaggio di prodotto e di qualità, come funghi nascevano soggetti dedicati all’export, anche nelle realtà locali più piccole e il Ministero dello Sviluppo Economico cambiava nome, lasciando per strada qualche decina di milioni dedicati all’export. L’Italia è quindi in ritardo sulla tabella di marcia di un’anomalia positiva, come l’export, che non può durare per sempre, ma va sfruttata fino in fondo.

Ad esempio si potrebbe prendere qualcosa di buono dalla Nei (National Export Initiative) degli Usa, messa in atto per rafforzare il comparto manifatturiero americano, esposto come il nostro alla competizione internazionale. Rafforzata e governata dalla Presidenza con un team di vertice, advisor compresi, che pratica anche e soprattutto attraverso l’export la politica industriale americana rivolta all’estero: la lama doppia della protezione interna insieme all’aggressione commerciale esterna. Fornite di tutto quello che serve, dall’arma dell’assistenza fino al credito della Ex-ImBank, le due azioni godono di una centralità di gestione che assicura velocità di decisione e gestione diretta della Presidenza.

L’export italiano trarrebbe una utilità notevole da una simile avocazione alla Presidenza del Consiglio delle competenze e delle azioni da mettere in atto. Verrebbe chiuso, se non direttamente bypassato, il conflitto di gestione tra Ministeri (Sviluppo ed Esteri). Garantirebbe una maggior controllo sull’efficienza delle strutture di cui servirsi. Potrebbe operare in maniera diretta sulla standardizzazione dei servizi erogati alle imprese dagli enti locali.

La forza di un Export Compact da realizzare in tempi brevi può dunque essere liberata solo da un export team affidato alla Presidenza del Consiglio. Avrebbe una presa efficace su tutti i soggetti coinvolti, coniugando, nello stesso contesto, il coordinamento insieme alla politica industriale del Governo, votata alla spinta di specifici settori o mercati, o all’accompagnamento diretto – come in questi giorni il presidente francese Hollande o il premier inglese Cameron in India – di grandi aziende capaci di trainare con sé i vari corollari di Pmi.

Non è quindi un nuovo Ministero dell’export la soluzione, quanto più la piena operatività di un organo snello, capace di soluzioni veloci nel panta rei della globalizzazione. Che superi le lentezze dell’Unione Europea in materia di protezione dei marchi – il Made In è ancora incagliato – gestisca in house materie delicate come i servizi di business intelligence (protezione dei brevetti, monitoraggio dei Fondi Sovrani, spionaggio industriale) e governi direttamente le risorse da destinare alle varie voci di spesa.

Sarebbe un’ottima occasione per viaggiare al passo con i nostri competitor, come Germania e Usa, travasare un po’ di innovazione in maniera diretta sui livelli di governo dell’export più inferiori, e uscire dalla logica “se è importante, mettiamoci dei soldi”. Un Paese con una manifattura così terziarizzata come l’Italia merita infatti di lasciare spazio a forme nuove di promozione per uscire dalla solita logica fiere/missioni, a iniziative più coraggiose come i temporary manager ed i temporary shop – negozi “affittabili” dalle Pmi nelle più importanti città del mondo per esporre i propri prodotti in centro, non in fiera.

Un export compact che punti ad una manifattura 2.0 potrebbe coinvolgere le Fiere, magari nel periodo di “bassa” legato al turn over, nell’organizzazione di un evento come Class Export francese, capace di radunare in pochi giorni tutti i soggetti del Paese che esportano o si dedicano all’export. Mentre il mondo corre veloce, muoversi con i vecchi schemi sarebbe un errore imperdonabile, perché esportare è per tutti, imprese e governi, confrontarsi con l’esterno e fare selezione naturale, laddove resistono non i soggetti più forti, ma quelli che si adeguano ai cambiamenti.

*Autore di Esportare l’Italia (Guerini & Associati) 

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