La macchina di Pier Luigi Bersani parte per Piacenza verso l’ora di pranzo. Le consultazioni del presidente Giorgio Napolitano sono ancora in corso. La delegazione del Pd sale al Colle in serata, quando il premier incaricato è già arrivato a casa. Bersani ed Enrico Letta – a incontrare il capo dello Stato è il vicesegretario assieme ai due capigruppo Zanda Speranza – si sentono al telefono più volte. C’è un filo diretto. Eppure l’immagine della sconfitta del segretario è proprio qui. Nella lontananza dal Palazzo, anche fisica. Proprio nelle ore in cui si decide il futuro del governo.
Aveva le carte giuste per vincere, Bersani. Ma alla fine la partita l’ha persa. Sconfitto Matteo Renzi alle primarie, sembrava aver già raggiunto Palazzo Chigi. Ecco il primo problema. In grande vantaggio nei sondaggi, durante la campagna elettorale non si è accorto di quello che stava accadendo (in realtà nel Pd non se n’è accorto quasi nessuno). La rimonta di Silvio Berlusconi, la sorpresa di Beppe Grillo. E così alla chiusura delle urne ci si è trovati con gli stessi voti dei principali avversari. Con una maggioranza alla Camera, certo. Frutto dell’odiato Porcellum. Ma nell’imbarazzante situazione di chi «non ha vinto anche se è arrivato primo» per dirla con le parole del segretario.
Troppo facile mettere in fila gli errori di Bersani, adesso. Eppure è innegabile che la sconfitta del leader Pd passa soprattutto dalla linea tenuta nell’ultimo mese. Dalla gestione della fase post-elettorale. La rincorsa a Grillo, la chiusura al Cavaliere, quel progetto del doppio binario: convenzione per le riforme con il Pdl e governo da soli. Un lungo percorso giunto al capolinea ieri pomeriggio, con una scena surreale. Al termine del colloquio con il presidente della Repubblica, è Nichi Vendola a chiedere il conferimento dell’incarico al segretario Dem. Sono gli alleati di Sel a suggerire ostinati a Napolitano di inviare il governo Bersani alla prova del Parlamento. Pdl, Lega, ma anche Scelta Civica, persino il Pd, propongono altre soluzioni. Larghe intese, governi del presidente, esecutivi di scopo. Bersani ha lasciato Roma da poche ore, ma il suo tentativo è già stato archiviato come un fallimento. Da tutti.
Tornano in mente le prime riflessioni all’indomani del voto. Quell’insistere sul senso di responsabilità, sul sentirsi pronti a dare il proprio contributo. Le urne avevano lasciato il Paese lacerato in tre parti uguali. E Bersani chiedeva già di poter guidare un governo di centrosinistra. In molti hanno interpretato quelle parole come una forzatura nei confronti del Colle. Quasi un’anticipazione delle scelte che spettavano al Quirinale. Anzi, sembra che il primo a storcere il naso sia stato proprio il presidente Napolitano. E così è iniziato un lungo braccio di ferro a distanza. Il capo dello Stato contro il segretario Pd. A un passo dallo scontro, Bersani ha avuto il merito di ricucire lo strappo. Una telefonata al termine della Direzione del partito – erano i primi giorni di marzo – per avvisare il Colle della linea politica decisa al Nazareno. Una cortesia istituzionale decisiva. Sembra che il dialogo sia ripreso allora.
Eppure quella Direzione fotografa l’altro errore di Bersani. Una strategia per molti incomprensibile (a quel dibattito il sindaco di Firenze Matteo Renzi rimase in silenzio tra le polemiche). Una linea chiara voluta proprio dal segretario: nessuna apertura al Pdl, intesa con il Movimento Cinque Stelle. Un dialogo cercato fino allo stremo. Quel programma di otto punti, studiato a fondo per mettere i grillini con le spalle al muro e costringerli a votare la fiducia. Ogni volta, un buco nell’acqua. E più Bersani chiedeva un confronto, più Grillo lo insultava. Una porta in faccia dopo l’altra.
A qualcuno, nel partito, è sembrata una manifestazione di masochismo. Silenziosamente nel Pd nascevano i dubbi. Gli stessi che nelle prossime ore usciranno allo scoperto – i primi distinguo già ieri pomeriggio – quando inizierà il processo al segretario. Perché Bersani continua con questa strategia? Sotto traccia si cominciavano a studiare piani B. Soluzioni alternative, da mettere in pratica una volta certificato il fallimento del leader. Incurante, Bersani ha insistito inutilmente sulla linea del dialogo con i Cinque Stelle. A costo di prendersi la responsabilità di far perdere tempo al Paese. Lo ha fatto fino alla fine. Fino a quell’incontro con la delegazione grillina in diretta streaming. La tragicomica richiesta di sostegno, in nome del cambiamento, andata in onda via web. «Mi sembra di stare a Ballarò», l’irriverente risposta della capogruppo M5S Roberta Lombardi.
Quando ci si è resi conto che per far partire il governo erano necessari i voti del centrodestra, troppo tardi, Bersani ha messo a punto la strategia del doppio binario. Una convenzione aperta a tutte le forze politiche per avviare assieme le riforme. Parallelamente, un governo aperto solo a centrosinistra e M5S. Anche qui, niente da fare. Legge elettorale, Senato delle autonomie, taglio dei parlamentari. Tutte riforme fondamentali. Ma l’offerta della presidenza della bicamerale non è stata sufficiente per convincere il Cavaliere. Silvio Berlusconi ha chiesto di più, il Quirinale. Merito a Bersani, che attorno a questo tavolo non si è mai voluto sedere. «Non esiste alcuno scambio tra Palazzo Chigi e la presidenza del Consiglio – ha spiegato fino a ieri – due cose che non c’entrano nulla». Chissà, magari con un po’ più di cinismo oggi il segretario sarebbe già a Palazzo Chigi. Invece ieri mattina ha deciso di andare a Piacenza.