L’accelerazione impressa alla Chiesa cattolica dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio ha generato un clima di entusiasmo e di slancio, una «nuova Pentecoste», che richiama quella stagione di grandi cambiamenti inaugurata dal Concilio Vaticano II.
Un Papa umile e innovatore capace di riservare alla Chiesa e al mondo notevoli sorprese. Un pastore che ricorda che il suo vero potere è il servizio, umile e concreto, soprattutto agli ultimi della terra, ai poveri, i più deboli, i più piccoli, chi ha fame, chi è straniero, chi è in carcere.
Così si presenta Papa Francesco nel giorno dell’insediamento che segna l’inizio del suo pontificato, un grande balzo in avanti compiuto in poco meno di una settimana. In questi primi giorni, con pochi, semplici gesti, ha rivelato alla comunità dei credenti e all’intera società l’essenza del suo programma.
La richiesta al popolo in piazza di pregare per lui, il suo chinare la fronte davanti alle persone in festa, la sottolineatura della figura del Papa come vescovo di Roma, la benedizione silenziosa, per rispetto nei confronti dei non credenti o dei credenti di altre religioni al termine dell’udienza con i giornalisti, il suo mischiarsi ai fedeli per strada al termine della messa a Sant’Anna: tutto nel suo stile di questi primi giorni richiama l’umiltà di un uomo come gli altri, senza leaderismi o ambizioni personali, allergico all’autoreferenzialità.
Sono istantanee emblematiche, ognuna a modo suo, del profilo adottato e dei compiti pastorali che attendono il nuovo Papa nella guida della Chiesa: ricostruzione, umiltà e semplicità, in una profonda immediatezza del gesto e della parola. «Ho scelto il nome Francesco perché uomo della pace, così come vorrei una Chiesa povera e per i poveri».
Segni di una sconvolgente chiarezza, che lo avvicinano per molti aspetti a Giovanni XXIII e aprono tempi nuovi per la vita della Chiesa. Ma a ben guardare la rivoluzione di Papa Francesco è più ampia, non si ferma solo a quell’aspetto comunicativo che ha generato in questi giorni un clima di entusiasmo e di slancio, una «nuova Pentecoste», che richiama quella stagione di grandi cambiamenti inaugurata dal Concilio Vaticano II.
In questa indicazione rivoluzionaria, la povertà della e nella Chiesa non rimane un aspetto accessorio, ma diventa un tratto qualificante la sua stessa identità, ne tocca l’essenza, dovrebbe esserne – sembra suggerire Bergoglio – il segno distintivo. Non è questione della sua generosità, ma appunto della sua identità.
Senza confondere la povertà con il pauperismo, senza identificarsi con posizioni ideologiche, con semplici parole questo Papa compie una scelta di campo profondamente innovativa, e pone la Chiesa davanti alla spinta riformatrice della povertà nel suo insieme: nelle strutture che si dà, nel modo di porsi tra gli uomini, nell’immagine di sé che coltiva, nelle scelte pastorali, nei mezzi che predilige e nel modo con cui li usa.
Di Francesco d’Assisi dunque il Papa non intende portare solo il nome, ma anche il suo sconvolgente e radicale sensus fidei, cioè l’intuito di fede, a lungo percepito nell’istituzione-Chiesa come un’arma eversiva e riscoperto ora, in condizioni di estrema debolezza, come un medicinale prezioso: la povertà, l’evangelizzazione, la scelta radicale di vita, la pace tra i popoli, l’armonia con la natura, la vita fuori dal mondo, ma anche in mezzo alla gente, con la gente, nelle città, l’obbedienza alla Chiesa, ma nello stesso tempo anche una ricerca personale di conversione.
È un profilo pontificale che sfugge a logiche politiche e non si presta a interpretazioni sulla base della tradizionale distinzione fra «progressisti» e «conservatori». In Jorge Mario Bergoglio la grande attenzione ai poveri e agli emarginati si accompagna da sempre a una rigorosa ortodossia dottrinale.
Denuncia senza timore ogni forma di violenza e di discriminazione come un semplice prete di strada. Lo ha fatto ad esempio nel discorso del 23 settembre 2011 in Plaza Constitución a Buenos Aires, quando ha ricordato che «la schiavitù non è mai stata abolita in questa città, è all’ordine del giorno in diverse forme, è strutturale». Ma rigetta l’avventura ecclesiale della teologia della liberazione e condanna i suoi confratelli che si lasciano attrarre da quelle tesi.
La sua «opzione per i poveri» non è quindi politica, ma radicalmente ecclesiale, come lo fu ad esempio per l’arcivescovo di Bologna Giacomo Lercaro al Concilio Vaticano II, quando il 6 ottobre 1962, durante i lavori della 35esima Congregazione Generale, tenne il celebre intervento sulla Chiesa povera e dei poveri, chiedendo che la costituzione De Ecclesia fosse riscritta a partire dal mistero del Cristo povero e che quello della povertà della Chiesa fosse il tema centrale di tutto il Concilio.
Con Papa Francesco una stagione nuova sembra dunque aprirsi per la Chiesa, in cui la collegialità potrebbe esprimere una volontà comunicativa universale. Sul tappeto un’agenda delineata nelle riflessioni di queste ultime settimane: il radicale riordino delle finanze vaticane, una profonda riforma della Curia romana, una maggiore collegialità nei rapporti con gli episcopati nazionali. Ma anche il rilancio del dialogo interreligioso, le nuove frontiere dell’evangelizzazione, il ruolo delle donne nella gerarchia e nel mondo cattolico, la questione del celibato e del conseguente calo di vocazioni che condiziona negativamente la cura pastorale.
Tutte questioni la cui diagnostica e risoluzione richiedono evidentemente uno sforzo collegiale, più che un intervento unilaterale e gerarchico.
Il Vaticano II ha voluto essere un concilio ecclesiologico, che ha approfondito la natura e l’identità della Chiesa con l’intento di promuoverne una più profonda autocomprensione e di aprirla al mondo contemporaneo.
Ora, sembra dire Papa Francesco, è necessaria una nuova pastoralità conciliare, capace di traghettare la Chiesa attraverso le nuove sfide imposte dalla globalizzazione. Francesco utilizzerà certamente i Sinodi, i Concistori e le Conferenze episcopali come strumenti per rinnovare il quadro della cattolicità apostolica e aprirà una nuova porta anche nella struttura del governo centrale della Chiesa.
Anche se tutto questo potrebbe non essere sufficiente. In questa sua «opera di purificazione», la Chiesa dovrà evitare il rischio di tornare a essere cieca e sorda di fronte ai problemi dei fedeli, perdendo la presa sulla realtà. Non dovrà, in altre parole, accontentarsi del cammino intrapreso in queste settimane, dopo la rinuncia al pontificato di Joseph Ratzinger, ma guardare avanti con serenità alla strada ancora da percorrere. Finora, soprattutto nei due pontificati precedenti, è prevalsa l’idea che il destino della Chiesa si giocasse innanzitutto nel confronto con la società secolarizzata e che la questione dell’autenticità della testimonianza fosse meno rilevante.
Ora il nuovo Papa dimostra di saper usare con disinvoltura lo strumento della collegialità e di poter parlare al mondo facendosi capire, dopo un lungo periodo di allontanamento dalle coscienze dell’uomo contemporaneo. E lo fa senza alcuna pretesa di ribadire la supremazia della funzione pontificale rispetto al ministero episcopale, avendo ancora al collo la croce di ferro che portava da vescovo, sedendo come un primus inter pares fra i suoi cardinali, viaggiando al loro fianco sullo stesso mezzo di trasporto, con la sua talare bianca che si confonde, senza stola e senza mantellina, fra le tante berrette rosse, con un’autocomprensione che rappresenta un balzo in avanti straordinario rispetto a quanto visto finora.
Sono immagini che segnano sostanzialmente il passaggio da una Chiesa gerarchica a una Chiesa vista come comunione di fratelli, che arriva a interrogarsi su come procedere in maniera corale, coinvolgendo eventualmente anche le altre comunità cristiane non cattoliche nella riflessione. Immagini che mettono radicalmente in discussione la tradizionale inconciliabilità nel principio del rapporto tra «primazialità» e «collegialità».
Parafrasando una celebre espressione di Hannah Arendt riferita a Giovanni XXIII, un Papa umile e innovatore siede ora sul trono di Pietro. Alcuni dei nodi che avrà dinanzi nel suo ministero necessitano probabilmente di uno strumento collegiale inedito nella storia della Chiesa, una sorta di consiglio o di senato pastorale, che lo affianchi nel governo della Chiesa universale.
Troppo a lungo la solitudine di Pietro l’ha esposto a intrighi e giochi di parte e ne ha indebolito la figura. È prevedibile che sarà proprio Jorge Mario Bergoglio, facendo sue le indicazioni giunte da più parti nei giorni del pre-conclave, a proporre il più possibile incontri collegiali in cui le diversità di esperienze, di situazioni e di linguaggi oggi presenti nella Chiesa possano confrontarsi, e in cui si possano affrontare via via le questioni più urgenti.
Questo Papa, che ha scelto il nome di un uomo semplice che ha contribuito a rinnovare la Chiesa rinnovando innanzitutto se stesso, si lega dunque indissolubilmente alla figura di Papa Giovanni XXIII, che indisse e aprì il Concilio. Dovrà solo decidere i modi e i tempi di quella riforma che è già da ora al centro del suo pontificato, senza ondeggiare dal pastorale al politico o oscurare la tensione al cambiamento con operazioni di sola facciata.
Ma certamente il tempo che si apre sembra destinato a plasmare il volto del cattolicesimo e a segnare le comunità cristiane del mondo intero. Con una marcia in più, quella della collegialità e della pastoralità conciliare, con la quale Papa Francesco potrebbe nuovamente stupirci, in attesa di un futuro Concilio Ecumenico Vaticano III.