Via Solferino, dietro gli scioperi la caduta degli Dei

Il Corriere della Sera e il rischio di finire come i minatori dell'era Thatcher

No, non è la solita vertenza sindacale, il braccio di ferro tra giornalisti ed editori che si risolve con cassa integrazione e prepensionamenti. Non è nemmeno il revival del vecchio “soviet di via Solferino”, quel comitato di redazione che spesso aveva rappresentato una sorta di contropotere. Certo, c’è un po’ di tutto ciò dietro lo scontro che oppone dipendenti e manager nella Rcs, mentre la Grande Metamorfosi riplasma l’editoria schiacciata dai nuovi media. Ma in questo scenario si svolge una battaglia decisiva per quel che resta del capitalismo italiano.

La Fiat ha in mano il bastone del comando e s’intravede una fusione con la Stampa. A suggello, il direttore del quotidiano torinese, Mario Calabresi, potrebbe andare al posto di Ferruccio de Bortoli in via Solferino, in via Rizzoli o dove diavolo sarà finito il quartier generale del gruppo. Ma è solo la tappa intermedia di un cammino che va più in là e porta con sé il tramonto del giornale di sistema, come il Corriere della Sera è stato per un secolo. La svolta risale a un anno fa, quando avviene quello che Diego Della Valle ritiene un vero e proprio golpe. Fiat, appoggiata da Mediobanca, prende i pieni poteri, John Elkann impone il suo manager, Pietro Scott Jovane, scovato in Microsoft, e riplasma il consiglio di amministrazione: scende da 21 a 12 membri, quattro rappresentanti diretti dei soci, e cinque indipendenti. Della Valle esce sbattendo la porta e minaccia scalate. Giovanni Bazoli, presidente di Banca Intesa, che per trent’anni aveva fatto da Lord protettore, ingoia amaro. L’antico equilibrio del “salotto buono” è saltato. E John Jacob Elkann parla apertamente della “nostra Rcs”: con una azione su dieci comanda per tutti. Come mai questa virata proprio mentre la fusione con la Chrysler spinge irrimediabilmente gli eredi Agnelli verso gli Stati Uniti?

AGNELLI, IL CORRIERE E LA POLITICA
La Fiat e il Corriere danzano insieme fin dagli anni ’70, quando Giulia Maria Crespi, “la zarina” infatuata del movimento studentesco, non aveva più una lira. Ma da allora ad oggi è stata sempre la politica a suonare la musica. Gianni Agnelli nel 1973 aveva comprato la quota dei Crespi, gli industriali tessili che erano nel capitale fin dalla fondazione, per non far cadere il giornale nelle mani di Attilio Monti, il potente petroliere legato alla destra, che possedeva Il Resto del Carlino a Bologna, la Nazione a Firenze, Il Piccolo a Trieste e Il Tempo a Roma, o di Eugenio Cefis (passato dall’Eni alla Montedison), protetto e protettore di Amintore Fanfani, allora uomo forte della Dc. La presenza di Agnelli dura appena un anno. L’Avvocato vuol fare il presidente di Confindustria e non intende avere contro Fanfani. Andrea Rizzoli compera l’intera quota Fiat e quella di Moratti. Indebitato fino al collo, si mette nelle mani del Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi e di Licio Gelli il gran maestro della loggia Propaganda 2.

Quando nel 1982 scoppia lo scandalo della P2, il Banco Ambrosiano viene messo in liquidazione. L’allora ministro del Tesoro Nino Andreatta lo affida a Giovanni Bazoli, avvocato bresciano, proveniente da una grande famiglia cattolica, amica di Giovan Battista Montini, papa Paolo VI. Bazoli chiede aiuto ad Agnelli il quale interviene attraverso Gemina, una finanziaria affidata a Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat. I socialisti prendono cappello: Bettino Craxi si sente tagliato fuori da quel che considera un patto tra la Fiat e i catto-comunisti. Sceglie, così, di esercitare una continua pressione sul Corriere, il giornale della sua Milano. “Governativo per vocazione”, Agnelli scende a patti, soprattutto quando Craxi arriva a palazzo Chigi. La scelta del direttore (che spetta all’Avvocato) e la linea politica sono oggetto di un continuo tira e molla. Nel 1992, quando si dimette Ugo Stille, Agnelli chiede il via libera di Craxi prima di nominare Paolo Mieli nella speranza che potesse gestire in modo soft il terremoto che l’inchiesta Mani Pulite stava per scatenare.

Tangentopoli, invece, travolge tutto, anche la Fiat. O meglio, arriva fino a Romiti che viene condannato e poi assolto anni dopo. L’Avvocato fa in modo di restarne fuori, il “non poteva non sapere” a lui non viene applicato, però si mette paura. Tanto da scegliere come successore di Romiti un manager che non aveva mai avuto posizioni di rilievo in Italia: Paolo Fresco proveniente da General Electric. “Voglio uno che non ha pagato tangenti”, confida ai pochi intimi. Il Corriere va a zig zag tra il giustizialismo culminato nello scoop sul mandato a Silvio Berlusconi nel 1994, e il tentativo di pilotare l’Ulivo guidato da Romano Prodi che mette in vendita l’intera industria pubblica. Agnelli non crede a Berlusconi, anche se cerca di usarlo. S’illude. La discesa in campo del Cavaliere segna la fine dell’egemonia Fiat anche sul padronato. La Confindustria non ha più bisogno della “famiglia reale” e nel 2000 Antonio D’Amato, medio imprenditore napoletano, diventa presidente battendo Carlo Callieri, il candidato Fiat, mollato persino da Romiti. E’ il gol dell’ex.

L’ASSEDIO BERLUSCONIANO
Il Bismarck dell’Avvocato, uscito nel 1998, ha ottenuto come “liquidazione” la quota di Gemina nel Corriere. Diventa così l’uomo forte di via Solferino nel momento in cui l’ascesa trionfale del berlusconismo costringe il giornale a giocare in difesa, con conseguenze anche sulla direzione. Mieli lascia a Ferruccio de Bortoli che entra in tensione con Berlusconi. Arriva Stefano Folli e dura appena un anno, preparando la grand rentrée di Mieli. Nel frattempo, nel 2004, Romiti molla e da quel momento scoppia la bufera. L’equilibrio, instabile e oscillatorio, nel giornale di sistema, si rompe. E nel 2005 c’è anche chi tenta la scalata. Chi si nascondeva dietro Stefano Ricucci? Berlusconi? O addirittura D’Alema? Magari entrambi, così il Corsera sarebbe stato il suggello del grande inciucio (con D’Alema addirittura al Quirinale l’anno successivo). Se ne sono dette tante. Ma l’operazione fallisce miseramente e, col senno di poi, sembra una velleitaria avventura, tutt’al più un avvertimento. In ogni caso, si scatena una lotta senza esclusione di colpi, con in testa Luca di Montezemolo, pluripresidente (Fiat, Ferrari e anche Confindustria). 

E’ proprio lui a esercitare una influenza importante sul giornale guidato da un azionariato che assomiglia sempre più al circolo Pickwick. Ancor oggi, il patto di sindacato blocca due terzi del capitale. Al suo interno Mediobanca ha il 14%, la Giovanni Sapa il 10,5; seguono Pesenti con il 7% e con quote attorno al 5% Banca Intesa, Benetton, Pirelli, Della Valle, Premafin (era di Salvatore Ligresti oggi è in mano a Unipol), poi con quote minori Assicurazioni Generali, Ubs, Banco Popolare, Merloni. Fuori dal patto, ma sull’uscio con il 13% Giuseppe Rotelli, il re degli ospedali privati milanesi, che ha rilevato la quota di Ricucci e si è alleato con Bazoli. A quel tempo, siamo nel 2005, al Lingotto stanno ancora combattendo per non finire in mano alle banche creditrici (nell’estate avverrà il colpo di mano Exor che garantisce agli Agnelli il 30% senza sborsare un euro in più) e si diffonde la convinzione che siano pronti a cedere la partecipazione in Rcs. Mentre la banca d’affari, priva di Enrico Cuccia e di Vincenzo Maranghi, viene tirata come un elastico da ogni parte: fa entrare Fininvest e Marina Berlusconi, è tenuta sotto scacco dai francesi guidati da Vincent Bolloré, finché alla sua presidenza non arriva Cesare Geronzi che ha appena fuso Capitalia in Unicredit. L’insieme dello schieramento berlusconiano, del quale fanno parte anche Ennio Doris e Ligresti, diventa fortissimo.

Il management del gruppo editoriale non trova pace e cambia in continuazione. Arriva Vittorio Colao e dura pochissimo. Non si intende né con la redazione né con Mieli che influenza strategie e linea politica: nel 2006 appoggia apertamente il ritorno di Prodi, suscitando uno choc tra i lettori e gli azionisti i quali ci vedono dietro la longa manus di Bazoli, il vecchio mentore di Prodi. A luglio, Colao se ne va e arriva dalla Stampa Antonello Perricone amico di Montezemolo fin dai tempi della giovinezza (oggi presidente di Italo, il treno). In quel periodo viene commesso l’errore che ora tutti stanno pagando amaramente, a cominciare dai giornalisti: l’acquisto del gruppo editoriale spagnolo Recoletos per una cifra enorme (oltre il miliardo di euro). Colao lo aveva rifiutato, e secondo alcuni è questa l’ultima goccia che provoca il suo licenziamento. 

Il cdr ha lanciato una contro-inchiesta, pubblicata sulle stesse colonne del giornale (mossa inusuale che non s’è mai vista nelle grandi testate internazionali). E teme che la sopravalutazione (almeno 300 milioni) nasconda il marcio. Emergono i legami con il più grande banchiere spagnolo, Emilio Botìn, patron del Banco Santander, cognato di Jaime Castellanos, il padrone di Recoletos (hanno sposato due sorelle, ricche ereditiere). Il Santander, tra l’altro, sponsorizza la Ferrari. Montezemolo replica che il contratto è avvenuto nel 2008 e l’acquisto di Recoletos risale a un anno prima. Comunque, cala l’ombra del sospetto. Finché nella primavera del 2012 arriva il grande reshuffle. Per fare che cosa? Tutti s’interrogano e nessuno trova la risposta.

LE TENTAZIONI DI J.J. ELKANN
Liberatosi dell’auto fondendola con la Chrysler, grazie alle “magie” di Sergio Marchionne, John Jacob Elkann ha due alternative: fare come i Rockefeller, sia pur su scala minore, cioè diventare finanziere, tagliatore di cedole, smetterla con l’imprenditoria che non è mai stata il suo mestiere e garantire alla numerosa e famelica famiglia dividendi adeguati a rinnovare ogni anno il guardaroba; oppure sganciare la zavorra di quel club oggi blasé, chiamato salotto buono, e proporsi come punto di riferimento di una ricostruzione del capitalismo italiano su basi più moderne e cosmopolite. La prima scelta non richiede un giornale, anzi non serve nemmeno stare in Italia, meglio la Svizzera, Londra o New York. Ha bisogno, però, di rimettere in sesto Rcs per collocarla in un grande gruppo multinazionale. Insomma, una manovra simile a quella compiuta con Fiat-Chrysler. La seconda strada deve trovare un punto di riferimento politico, se non proprio un partito. In tal caso, un giornale è determinante, ma non il “giornale di sistema”, piuttosto il “giornale di progetto”, insomma la Repubblica dei moderati. E’ in grado di farlo Elkann? Ne ha voglia proprio lui che in Italia ha trovato solo un paese d’adozione?

In ogni caso, “Gei Gei” Elkann ha bisogno di rivoltare come un guanto Rcs. Intanto, deve rimediare ai disastri delle gestioni precedenti. I debiti sono ingenti: a fine 2011 la posizione finanziaria netta era negativa per 938 milioni con un cash flow operativo di 126 milioni, linee di credito per 1,7 miliardi a fronte di ricavi attorno a 1,6 miliardi di euro. Quindi, c’è bisogno di un massiccio aumento di capitale. Poi bisogna far rinascere un gruppo editoriale competitivo dalle ceneri del vecchio. Il quotidiano è una corazzata che ancora resiste anche se perde posizioni, ma così com’è non può più reggere, mentre la redazione, antico punto di forza, è ormai esausta. La scelta del top manager dimostra che il cuore strategico pulsa nel web. Entro due anni dovrebbe dare un quarto del fatturato. Del resto questo è il campo di battaglia dei nuovi poteri. La ricomposizione degli interessi, l’agenda del paese, le stesse relazioni internazionali, passeranno di qui. In mezzo alla miriade di blogger inneggianti alla Agorà digitale, alcune corazzate (Mondadori, Espresso, Rcs, Mediaset, Rai, Sky, Bertelsmann) formeranno la flotta del nuovo capitalismo. E i giornalisti? Faranno la fine dei minatori nell’era Thatcher…

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