Friuli Venezia Giulia, il primo voto dopo le politiche

Affluenza in forte ribasso: dal 2008 persi 20% dei votanti nella prima giornata di voto

Alla vigilia delle elezioni regionali, il Friuli Venezia Giulia (domenica e lunedì si vota anche per rinnovare la presidenza della provincia di Udine e in 13 Comuni) diventa uno scenario teatrale per rappresentare la drammatica battaglia per scegliere il nuovo presidente della Repubblica. Nella regione più lontana geograficamente, politicamente, storicamente da Roma, nata dalle mutilazioni della seconda guerra mondiale, nella città giuliana, Trieste, l’ultima a diventare italiana.

È qui che Grillo ha strepitato in piazze gremite per impedire l’accordo Pd-Pdl, qui che Berlusconi è stato contestato, qui che Matteo Renzi è venuto anche per giocare la sua partita, con un partito diviso e lacerato, che sembra stia cercando di ritrovare l’unità puntando su Romano Prodi. Ecco perché nessuno si fida a fare pronostici né si affida alle rilevazioni demoscopiche, per timore di una clamorosa smentita , come è già successo alle elezioni politiche. Soprattutto qui, a Est del Nordest, nella Regione a statuto speciale che quest’anno ha festeggiato senza entusiasmo mezzo secolo di autonomia, dove i fattori di imponderabilità sono troppi, per fare previsioni.

Nonostante l’isolazionismo geografico, politico ed economico del FVG, l’esito elettorale delle elezioni regionali può essere considerato un test per capire le intenzioni degli elettori, dopo la frantumazione degli schieramenti tradizionali, che hanno diviso il Paese, politicamente, in tre f(r)azioni, anche se la tentazione di chiamarle bande, davanti alle loro recenti penose performance, completamente avulse dalla realtà del Paese, è praticamente irresistibile.

I principali concorrenti, in teoria con maggiori chance, il presidente uscente Renzo Tondo, un professionista della politica con una lunga storia politica alle spalle cominciata nel partito socialista e un carisma che ancora tutti (o quasi) gli riconoscono, è incalzato dalla candidata del Partito democratico, l’europarlamentare Debora Serracchiani, lanciata nel firmamento della politica da Dario Franceschini e poi diventata renziana, devono fare i conti con il consenso dei grillini, che alle elezioni politiche si sono affermati come primo partito con il 27,2% dei voti.

Anche se anche in Fvg, come nel resto d’Italia, il M5s deve a sua volta fare i conti con un lieve, ma sensibile calo di consensi dovuto ai ripensamenti di «Chi ha pensato di scrollare l’albero, ma ora ha capito che rischia di sradicarne anche le radice» osservano alcuni editorialisti locali. I friuliani però non ci credono. O forse non ci vogliono credere che Saverio Galluccio, 42 anni, candidato a portavoce presidente del M5s sulla piattaforma web da 54 attivisti, possa spazzare via un’intera classe politica. Lui che si è presentato così: «Mi chiamo Saverio, abito da sempre a Cervignano, mi occupo di bioedilizia, risparmio energetico ed energie alternative» ha fatto una campagna molto tenue, senza mai alzare la voce né scatenare polemiche. Adattandosi al programma del M5s, ma con spirito più pragmatico e meno radicale del suo leader Beppe Grillo, che in queste ore sta cercando di aumentare le sue chance di vittoria.

I suoi slogan? Una miscela di forzaleghismo, shakerato con un cocktail di ambientalismo e un po’ di attenzione ai diritti civili. «Piccolo è bello» per le imprese; «reddito di cittadinanza» per il welfare, «riduzione dei costi della politica» per mandare a casa una classe dirigente, recentemente finita dentro lo scandalo sull’utilizzo dei rimborsi elettorali. E chissà se è riuscito a convincere i giuliani di Trieste a votarlo, dopo che ha detto che la sua priorità è quella di portare la banda larga su in montagna, in Carnia. O quando ha affermato che bisogna boicottare i cantieri della terza corsia sull’autostrada A4 perché «rappresenta un’emergenza democratica» in una Regione ammalata di isolazionismo e affamata di infrastrutture. Nonostante la terza corsia in Fvg sia, come la Tav in Piemonte, un argomento che divide i cittadini, soprattutto perché deve essere finanziata interamente dalla Regione, che sembra non avere più copertura finanziaria per concludere l’opera. I friuliani forse non vogliono credere che un “Quiet man”, così è stato soprannominato il candidato di Grillo, per indicare la sua forza da peso piuma in una regione che fra i suoi eroi annovera il pugile Primo Carnera, evocato anche da Grillo nel suo comizio a Pordenone.

Su queste elezioni pesa la drammatica congiuntura economica. Il FVG va alle urne in un momento catastrofico della propria economia. Qualche giorno fa sono stati resi pubblici i dati di un monitoraggio sui distretti industriali del centro studi e ricerche di Intesa Sanpaolo, da cui emerge che il FVG è l’unica regione del Nord ad avere persino l’indice negativo relativo all’export nel 2011, con un calo del 10,4% (in Veneto c’è stato invece un lieve aumento del 3%). Un calo dovuto probabilmente alla mancata internazionalizzazione delle imprese, in maggioranza di piccole dimensioni, e alla scarsa competitività con la Slovenia e l’Austria, dotate di un regime fiscale più equo e un costo minore del lavoro.

Inoltre non si può ignorare il tasto dolente dei conti di una regione a statuto speciale, che nonostante le agevolazioni fiscali, deve fare i conti con la penuria di risorse. Quando, nel 1963, venne proclamata la sua autonomia, padre David Turoldo scrisse «il nostro popolo ha conquistato l’autonomia, ora si apre una nuova storia e una nuova dignità. Ora anche gli ultimi potranno trovare quell’ascolto mai trovato, prego perché chi avrà il potere di decidere sia saggio e onesto e mai tradisca il nostro popolo che ha già sofferto troppo».

Eppure oggi, come fa notare a Linkiesta il direttore del quotidiano di Trieste, Il Piccolo, Paolo Possamai, «Chiunque vinca le elezioni, dovrà affrontare un compito gravoso e complesso. Siamo passati da un bilancio regionale di 5 miliardi di euro nel 2011 a 4 miliardi e, a causa della crisi e dei tagli decisi dal governo centrale, arriveremo ad averne a disposizione 3 nel 2013. E siccome la nostra regione gestisce autonomamente la Sanità che assorbe metà del bilancio, chi vincerà dovrà fare riforme strutturali e tagliare drasticamente la spesa pubblica». Insomma un compito da far tremare i polsi a qualunque candidato. Al punto che il competitor apparentemente favorito, il presidente uscente, agli amici, dice «forse mi conviene perdere» scherzando ma non troppo.

Infatti, anche se nessuno in campagna elettorale ha messo in discussione l’autonomia, un totem per i friuliani, è chiaro a tutti che il semi-federalismo fiscale che permette al FVG di trattenere sul territorio una quota consistente delle tasse, è diventato un’arma a doppio taglio, che fa sanguinare le casse della Regione, visto che deve gestire l’aumento dei costi della Sanità e l’intero sistema dei trasporti. Difficile dunque apprezzare i vantaggi di un’autonomia «in un’economia di guerra» come l’ha definita Maurizio Bait, giornalista del Gazzettino, che usa sempre questo proverbio tedesco: “Kein Geld, keine music”, niente soldi, niente musica. Anche se è alla melodia dell’identità friuliana, che i candidati fanno appello, per vincere le elezioni. Il motto del presidente uscente, indebolito dall’indagine della Guardia di finanza sui rimborsi spesa dei consiglieri regionali, che ha evidenziato l’avida irresponsabilità di un’intera classe dirigente, Pd, compreso, forse è il più ficcante. «Un popolo, una Regione». Per far leva sulla necessità di rilancio dell’autonomia, che va rivista secondo lui con «una fiscalità di vantaggio», ha detto e ribadito durante la campagna elettorale, suscitando la contrarietà della candidata del Pd che invece ha proposto di rimodulare l’Irap, cancellandola solo per le grandi imprese, e lasciandola alle più piccole (sic).

Sostenuto da Lega, Pdl, Udc, i Pensionati e una lista di autonomisti, Autonomia Responsabile, sulla quale in un’intervista ha detto con schiettezza, inciampando in una gaffe, «Serve ad aumentare i consensi», Tondo punta molto sul suo appeal personale, trasversale, che lo ha sempre reso popolare, perché è sempre stato considerato un leader con una forte personalità e un margine di autonomia verso i partiti. Anche perché lui fu fra i primi a sostenere, prima dell’arrivo di Mario Monti al governo, che Silvio Berlusconi doveva farsi da parte. Anche se in realtà si presenta molto debole alle elezioni perché durante il suo mandato non è riuscito a realizzare le promesse di riforma e di contenimento dei costi della politica. I suoi detrattori gli rinfacciano la sua inerzia, visto che l’unica riforma conclusa se tale può essere definita, è stata la riduzione dei consiglieri regionali,e un tentativo maldestro di accorpare le comunità montane, mal riuscito.

Debora Serracchiani, il cui motto invece è «Torniamo ad essere speciali», cerca di presentarsi agli elettori come l’unica possibilità di cambiamento, ma non sembra aver scaldato i cuori dei friuliani, (tranne quando è arrivato, in soccorso, Matteo Renzi per sostenerla) forse perché non è stata abbastanza incalzante. Molto più preparata del suo competitor grillino, viene però considerata troppo algida, distante dal suo popolo. Debora Serracchiani ebbe il suo quarto d’ora di celebrità quando nel 2009 riuscì a farsi ascoltare dall’assemblea del Pd per 14 minuti di fila e a tutti sembrò una rottamatrice ante litteram, perché disse con enfasi «Mai una parola chiara, mai una linea netta, e soprattutto mai unica. Dobbiamo superare i protagonismi per una politica nuova e rinnovata», prima di finire in una trappola di malumori e veti interni che l’hanno portata a spingere l’acceleratore sul proprio di personalismo, come affermano i suoi detrattori. Anche se non va dimenticato che alle elezioni europee lei prese 74mila preferenze, così tante da poter vantarsi di averne prese 10mila in più di Silvio Berlusconi.

Non è facile prevedere chi vincerà, (se Twitter fosse un’unità di misura del consenso elettorale, avrebbe vinto lei, Debora Serracchiani, che può contare su 95mila followers). Tondo è sostenuto da una coalizione di centrodestra che nel 2008 riuscì ad ottenere il 48% dei voti per poi vedere il proprio consenso dimezzato nel 2013, ma è considerato l’usato sicuro, perché davanti alla crisi può prevalere la paura, la diffidenza, l’incertezza davanti alle novità. Debora Serracchiani vorrebbe rappresentare una svolta, anche se la sua candidatura sembra nata più da una somma di veti incrociati, di malumori e lotte interne al Pd del Fvg, che da una acclamazione della base.

Saverio Galluccio, sconosciuto e di modesto profilo, si affida sull’effetto trascinamento del breve tsunami tour di Beppe Grillo, perché da solo fino ad ora non è riuscito neanche lui a surriscaldare quell’ambiente a cui tanto tiene. Soprattutto ora che il modello speciale basato sul motto «Fasin di bessoi» facciamo-tutto-noi forse non è più sufficiente, come osserva il giornalista Beniamino Pagliaro nel suo libro “Friuli Venezia Giulia, la crisi dei cinquant’anni”, dedicato alla crisi del modello politico e sociale autonomista. Alla fine, a decidere le sorti di queste elezioni, probabilmente sarà l’eco del travaglio per scegliere il presidente della Repubblica, che agita i sonni soprattutto di Debora Serracchiani, e ha immediatamente condiviso le critiche di Matteo Renzi verso la prima scelta verso il lupo marsicano, Franco Marini. La candidata del Pd si presenta ai suoi elettori con un partito alle spalle, diviso e fragile, non proprio un adeguato biglietto da visita per incarnare il nuovo che avanza. E chissà se i comizi roboanti di Grillo, trasformati in una crociata contro il tentativo di inciucio Pd-Pdl, aiuteranno Saverio Galluccio ad attirare le simpatie dei cittadini friuliani. Troppo lontani da Roma, per riuscire a capire che i loro destini sono legati al capitolo finale del romanzo Quirinale.  

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