C’era una volta un filone, quello del cinema thatcheriano, o più giustamente antithatcheriano, che vedeva nella Lady di Ferro la responsabile di dure riforme economiche e sociali e del peggioramento delle condizioni di vita della classe operaia. Era quindi un genere duro, sgradevole, sarcastico arrabbiato, dichiaratamente di parte. Filone che è andato accumulando storie e denunce di pari passo con i governi conservatori, per poi sbocciare armato come Minerva, riuscendo a imporsi nell’immaginario del pubblico anche dopo la fine della leadership della Thatcher (1990). “Punk Britain, gay Britain, Thatcher’s Britain” sentenziava Derek Jarman, uno degli artisti inglesi che più ha incarnato la reazione britannica al conservatorismo della Lady di Ferro e prima di tutti compose “The Last of England” (1987), grande poema epico in super8 e video con cui Jarman “denunciava la violenza, l’ingiustizia, la crudeltà dell’Inghilterra thatcheriana, aggressiva e omofobica” (Irene Bignardi).
Ultima ma blanda eco del filone è stata la produzione di recenti biopic, a conti fatti senza grandi risultati. Sul grande schermo non ha infatti ricevuto consensi dalla critica l’atteso “The Iron Lady”, secondo molti un’occasione sprecata di fare un bilancio dei trionfi dell’ex primo ministro inglese, non però per Meryl Streep che con il ruolo della vecchia e malata signora è finalmente tornata a rivincere un’Oscar nel 2011. Per Mariarosa Mancuso nel film “la Margaret Thatcher trionfante, decisa a ridisegnare l’Inghilterra e il Partito conservatore a sua immagine e somiglianza appare in poche scene […] mentre il resto racconta una vecchietta che si aggira per casa in vestaglia di flanella”. Alla televizione britannica le interpretazioni di Lindsay Duncan, Greta Scacchi e Patricia Hodgenon non hanno fatto parlare molto di sé, la sola Andrea Riseborough è stata premiata ai Bafta. Due anni fa è morta anche Janet Brown l’attrice comica scozzese che era diventata famosa per l’imitazione della Thatcher al The Yarwood Mike Show e che nel 1981 aveva ottenuto per il finto primo ministro un cameo finale nel film di James Bond “Agente 007, solo per i tuoi occhi”.
Per farsi un’idea del cinema thatcheriano bisogna tornare agli anni Novanta quando erano zero gli omaggi e tanti gli sberleffi dedicati alla Iron Lady, evocata esplicitamente o maledetta come una minaccia che aleggia nell’oscurità. L’Inghilterra semplice e proletaria rappresentata al cinema viveva un profondo disagio sociale ma non intendeva mortificare oltre la propria vitallità, e così come era pronta a denunciare il trauma della perdita del lavoro e delle difficoltà economiche, era anche disposta subito a rimboccarsi le maniche per uscirne in qualche modo. Campione di questo orgoglio antithatcheriano è stato il regista socialista Ken Loach, con latrilogia arrabbiata composta da “Riff-Raff” (1990), “Piovono pietre” (1993 e premio speciale della giuria a Cannes) e “Ladybird Ladybird” (1994), tre storie universali, che non hanno mai perso lo smalto a distanza di tempo.
Da quel momento è stato un fiorire di film di successo, applauditi dal pubblico e apprezzati dalla critica. Nel 1997 escono due film diversi: il primo è l’esplicito fin dal titolo “Grazie signora thatcher” di Mark Herman (1997) con l’ex trainspotting Ewan McGregor e un commovente Pete Postlethwaite protagonisti della storia di una gloriosa banda musicale composta da minatori disoccupati che rinuncia al trofeo nazionale dopo averlo vinto clamorosamente per denunciare la chiusura della miniera voluta dal governo. Il secondo, “’Full Monty” (1997) di Peter Cattaneo, molto ironico ma non meno efficace, è incentrato su un gruppo sgangherato di disoccupati non più giovanissimi che preferiscono inventarsi uno spettacolo di spogliarello per uscire dalla disoccupazione e dalla depressione.
Oltre il disagio vissuto dagli adulti c’è spazio anche per le storie incentrate sui ragazzi. “Billy Elliot” (2000) di Stephen Daldry racconta la vicenza di un bambino che prova a diventare ballerino per avere un futuro migliore del padre e del fratello minatori con il lavoro a rischio. “This is egland” (2006) di Shane Meadows, premiato al Festival di Roma, narra invece la storia di un dodicenne, orfano di padre soldato nella guerra delle Falkland, che entra a far parte di un gruppo di skinhead per non rimanere da solo a sopportare le prese in giro dei coetanei. Meadows è esplicito nel criticare “un Paese dove si cresce in fretta e si diventa adulti senza grosse prospettive” (Mattia Nicoletti).
Più antibritannico che antithatcher il versante che guarda alla questione irlandese, che spazia da “Il nome del padre” (1993) di Jim Sheridan alla più recente voce fuori campo de Lady di Ferro in “Hungher” (2008) di Steve McQueen.
Ma in un’epoca di confini oramai superati tra cinema tv e schermo del pc, è definitivamente arruolato a posteriori come ultimo grande esponente del cinema antithatcheriano la celebre doppietta di Diego Armando Maradona ai mondiali di Argentina nel 1986. La Mano di Dio è stata innalzata subito a manifesto di orgoglio in una calda giornata degli anni ’80, quattro anni dopo la fine della guerra delle Falkland. Un gol irregolare, da guappo, bissato poco dopo in campo con un’azione che annichilì buona parte della nazionale che ha inventato il gioco del calcio, “Para que el país sea un puño apretado, gritando por Argentina!…Gracias Dios, por el fútbol, por Maradona, por estas lágrimas, por este Argentina 2 – Inglaterra 0” urlava singhiozzando il commentatore Victor Hugo Morales. Uno smacco d’autore che neanche Ken Loach aveva saputo immaginare.