Quello che segue è un estratto del libro “Cantona” scritto da Daniele Manusia, per add editore
L’infanzia di Eric Cantona
Quando Cantona mette piede per la prima volta in un campo da calcio sceglie di giocare in porta: «Per me non c’erano che due possibilità: portiere o attaccante. Miravo solo a una cosa: essere il salvatore della squadra.»
La famiglia Cantona è emigrata dalla Sardegna a Marsiglia nel 1917 e da una sua intervista al mensile «Actuel» del 1988 sembrerebbe che il cognome originale fosse Concini, storpiato come in tutte le storie di emigranti dai burocrati del Paese d’arrivo. Ma i due nomi non hanno lo stesso suono e nell’estate del 2012 le cronache sarde raccontano che Eric fosse a Ozieri per visitare la tomba di un suo antenato: Salvatore Cantona. In ogni caso il nonno paterno di Eric, nato sul suolo francese, parla ancora il dialetto sardo, legge il giornale sardo e compra il formaggio sardo al porto.
La famiglia materna è arrivata in Francia dalla Catalogna negli anni ’40, il nonno repubblicano aveva combattuto la Guerra Civile contro Francisco Franco e aveva passato il confine per curarsi le ferite.
Una volta insieme, Cantona padre e Cantona madre iniziano a costruire casa su un terreno roccioso nella parte nord di Marsiglia. La zona si chiama Les Caillols e anche se adesso ci sono gli HLM a quei tempi era una specie di paese. Il terreno comprendeva una grotta (forse usata dai nazisti come bunker) a partire dalla quale il nonno sardo, muratore, aveva costruito una prima casa. Da lì si godeva una vista da togliere il fiato e qualche centinaia di metri più in basso c’era un campo da calcio. Anche il nonno catalano, Pedro, era muratore e per via di alcune divergenze sulla progettazione del nido d’amore della nuova coppia i due non si rivolgeranno più la parola. Successivamente Pedro torna a vivere a Barcellona dove Eric va a trovarlo più volte durante l’infanzia.
Quando gli chiedono quale delle due influenze sia stata maggiore su di lui, la tradizione italiana o lo spirito di ribellione catalano, Eric risponde: «Nessuna delle due. Sono figlio di Cantona e di nessun altro. Sono così e basta. Un Cantona doc. Marchio registrato». E quando dice «sono figlio di Cantona» credo intenda Eric Cantona, di essere figlio di se stesso.
Nelle interviste rilasciate nel corso degli anni, delinea i tratti principali della sua educazione. Anzitutto quei valori working-class che non possono mancare in una famiglia di immigrati. Perché quando arrivano i tre figli maschi (Jean-Marie, più grande di quattro anni, e Joël, più piccolo di uno e mezzo) la casa non è ancora pronta e non lo sarà per tutta la loro adolescenza. «Quando non avevamo scuola, tutti i mercoledì e i fine settimana portavamo i sacchi di sabbia… a casa mia si costruiva tutto così… con il lavoro, la volontà e molta solidarietà.»
Ma semplicità non significa durezza. «Ho parlato molto di quanto la mia famiglia lavorasse, del gusto per il lavoro, il gusto per la fatica, ma non c’era solo questo. La felicità, era stare insieme, ma era anche sensibilità per la bellezza, sensibilità per il mondo che ci circonda, gli odori, la luce… eravamo in molti a essere così con mio padre, mia madre, mio nonno… tutti insieme prendevamo la macchina per andare a camminare, stretti come sardine, ci fermavamo per un picnic, eravamo molto felici.»
Il nonno gli diceva: «Hai una bocca e due orecchie: devi più ascoltare che parlare»; e non si può descrivere l’infanzia di di Eric senza spendere qualche parola in più su Albert Cantona, infermiere in un ospedale psichiatrico, calciatore dilettante (portiere) e appassionato d’arte, pittore della domenica che insegna ai figli a dipingere, li porta per musei e gallerie e al Vélodrome a vedere l’Olympique Marsiglia. Nel 1972, sulle spalle del padre, Eric si innamora dell’Ajax di Cruijff (il modello del tipo di calciatore che sognerà di diventare). Albert gli ha insegnato che non c’è «niente di più stupido di un giocatore che si crede più importante del pallone». Eric ricorda: «Ti spiegava una cosa e poi magari si metteva a piangere. Ci ha trasmesso passione e amore per la vita. È molto importante: sono queste fondamenta a rendere solida un’educazione. Puoi piangere anche se sei grande e grosso. Puoi vedere qualcosa di bello e piangere solamente perché è bello.»
Scena tratta da “Looking for Eric” di Ken Loach (2009)
Eric Cantona con la maglia del Manchester United. Per i tifosi è “il calciatore del secolo”
In casa girano libri e si sente musica classica, ma nessuno viene obbligato a leggere o ad ascoltare quello che non gli interessa, la cultura è intesa come curiosità e la bellezza come valore morale: «I miei genitori mi hanno insegnato che è un dovere osservare il mondo, quanto c’è di bello, e di tragico. Magari mentre mio padre stava guidando poteva notare qualcosa e fermare la macchina dicendo: Guardate che luce magnifica».
Il mestiere del padre lo sensibilizza al tema della follia e della normalità, che ritorna spesso nei suoi discorsi: «Dov’è il confine? Chi lo traccia? Chi ci dice che quella persona è pazza e perché è pazza?»
Eric non pensa alla pazzia come problema teorico: «A me spaventa per me stesso. Personalmente ho l’impressione di poterci cadere, e non so fino a che punto posso spingermi…»
A far pendere la sua bilancia più dalla parte della follia che della normalità è anche il fascino che esercitano su di lui i racconti riguardo a uno zio che viveva come un eremita sulle montagne dell’Ardèche, con la barba fino all’ombelico, solo con le sue capre, pescando trote nei fiumi e mangiando i frutti degli alberi. Una volta lo avevano portato a Marsiglia, ma avevano subito dovuto compiere il cammino inverso, la città lo avrebbe ucciso. «Lo zio aveva capito che bisogna vivere per sé stessi, lì in alto. Perché, qui in basso, si mischia tutto. Le emozioni si confondono. La sera, guardi le immagini della Bosnia in Tv e ti viene da piangere. Dieci minuti dopo gli fai vedere delle ragazze mezze nude e si sono dimenticati della Bosnia».
Vent’anni dopo, quando Cantona si darà al cinema, tra i tanti progetti avrà anche quello di un film sullo zio. Lui non lo ha mai conosciuto ma la nonna (che da piccolo lo accompagnava alle partite e litigava con gli altri spettatori agitando l’ombrello che si portava dietro anche nei giorni di sole) gliene aveva parlato abbastanza da farne un modello.
«Era qualcuno. Quello che conta è sentirsi importante. Anche se per gli altri non lo sei.»
La mattina prima di andare a scuola Eric calcia contro la porta del garage, a ricreazione gioca a calcio nel cortile, prima di pranzo gioca a calcio, dopo aver portato i sacchi di sabbia va a giocare a calcio, il fine settimana ha la partita con la squadra e anche dopo la partita continua a giocare a calcio.È chiaro che si tratta di un ragazzo speciale. Il fratello maggiore ricorda la tigna del piccolo Eric, capace di rompere il tavolo da ping-pong dopo una sconfitta. A Canal Plus, in occasione dei quarant’anni di Eric, ripensando a quel periodo la madre dice: «Credo che abbiamo fatto un genio».
Come detto, inizia in porta, ma lo Sport Olympique Caillolais ha il miglior settore giovanile di Marsiglia e quasi sempre la squadra vince senza fargli fare neanche una parata. Albert gli ha spiegato che un buon portiere si butta raramente a terra, perché quando un portiere si butta significa che è posizionato male. Certo, se gli avversari non arrivano neanche a tirare in porta…
Nei ricordi dei suoi primi allenatori, Eric Cantona era già elegante in campo e chiaramente più dotato dei suoi compagnucci. Nessuno di quelli che lo ha visto giocare da bambino lo ha dimenticato. A nove anni era grosso come un ragazzo di quindici, e certi resoconti dicono abbia giocato più di duecento partite con la maglia del SO Caillolais segnando in media più di un gol a partita. I suoi critici futuri diranno che crescere in una squadra che vinceva sempre ha fatto di lui un cattivo perdente. Durante gli anni del liceo Cantona si aggirava per i corridoi gridando: «I am the king! I am the king!».
A quattordici anni viene preselezionato per la Nazionale giovanile e gli osservatori di molte squadre professioniste mettono gli occhi su di lui. A quindici lascia la scuola e si trasferisce nel centro di formazione dell’Auxerre. È arrivato fino alla troisième, che corrisponde al nostro primo anno di liceo. Considerando che in Francia il ciclo di studi finisce un anno prima che da noi, a Cantona ne mancavano tre per il diploma.
Per quale ragione un talentuoso ragazzo del sud ha scelto di finire in Borgogna, a seicento chilometri di distanza da casa, in una squadra appena promossa in Ligue 1 per la prima volta nella sua storia?
Prima di tutto l’Olympique Marsiglia, di cui è tifoso, lo scarta giudicandolo troppo lento. E lui a sua volta rifiuta la più blasonata Nizza, non una squadra di prima fascia, d’accordo, ma dove almeno avrebbe visto con più facilità la famiglia a cui teneva tanto.
Cantona racconta che Guy Roux (l’allenatore che in vent’anni aveva portato l’Auxerre dai campionati dilettantistici regionali alla prima divisione) lo convinse con una maglietta. O meglio, che aveva praticamente firmato a Nizza ma si rifiutarono di regalargli un gagliardetto, facendoglielo pagare dieci franchi. Guy Roux, invece, non ci pensò due volte a infilargli un gagliardetto e una maglietta nella borsa.
In un video di molti anni dopo un Cantona grasso e rasato, intervistato su un balcone, ricorda così quel momento: «Per un ragazzo di periferia, per un ragazzo di qualsiasi quartiere, è molto importante che quando arriva in un club gli regalino una cosa», nel senso che è importante sentirsi accolti con generosità, una dimostrazione di fiducia. Anche se a pensarci bene aggiunge: «Forse mi avrebbero dato molte più cose a Nizza, dopo…»
Una spiegazione diversa è quella secondo cui Eric sia rimasto impressionato dalla bellezza dei campi d’erba di Auxerre e dai molti trattori che li lavoravano. Che abbia preferito traslocare a Nord dove pioveva e faceva freddo così da avere meno tentazioni, meno ragazze in bikini, e potersi concentrare al cento per cento sul calcio.
Quindi Cantona è un adolescente permaloso e al tempo stesso molto lungimirante. «Ero lucido a quindici anni, eh…»
*Vive e lavora a Roma. Ha collaborato con Nuovi Argomenti, GQ, minima & moralia, Orwell, Rivista Studio e cura la rubrica di calcio Stili di Gioco per Vice.com. Per Vice.com ha curato un ritratto in due parti di Eric Cantona (prima parte – seconda parte).