Immaginare la matematica pura, per una mente cosiddetta normale, è un salto nel vuoto. Impossibile come pensare ai limiti dell’universo, come fissarsi sul concetto di infinito, come tornare indietro al brodo primordiale e dare un senso univoco all’esistenza della vita sulla terra. Eppure ogni teorema è risolvibile, ogni stringa ha una sua soluzione, ogni incognita è per sua intrinseca definizione semplificabile fino alla sua sua palese, unica forma indivisibile. Ecco dove agisce il genio: in quel campo ordinato e invisibile, dove ogni cosa ha la sua posizione e il risultato è solo una questione di logica. Non importa se per arrivarci occorreranno anni o se rimarrà sconosciuto per sempre, quello che conta è la consapevolezza che esiste, perché se non esistesse non si tratterebbe di matematica, ma di astrazione.
Cédric Villani è un genio. Non per il suo aspetto peculiare, i suoi farfalloni da dandy e la spilla a forma di ragno che porta al bavero della giacca a tre quarti, nemmeno per la medaglia Fields – il massimo riconoscimento per la matematica, assegnatagli nel 2010 per il suo contributo nello svolgimento dell’equazione di Boltzmann e per la dimostrazione dello smorzamento non lineare di Landau – o per essere ad appena quarant’anni direttore dell’Istituto Poincaré.
È un genio per la semplicità con cui è in grado di spiegare quella matematica paurosa e oscura che è la sua quotidianità, fino a renderla qualcosa di avvicinabile, se non comprensibile. Di affascinante, se non attraente.
Piergiorgio Odifreddi ha definito l’approccio di Villani sensuale, una sorta di corteggiamento seduttivo e ammiccante che scioglie il ghiaccio più che romperlo. Vero, come è vero che a sentirlo parlare si ha la sensazione che quei risultati occulti non solo esistano, ma siano evidenti e alla portata di chiunque. Il genio sta nel rendersi conto della difficoltà, ma non dare l’idea di preoccuparsene.
Quella raccontata ne Il teorema vivente – da poco uscito per Rizzoli e tradotto da Paolo Bellingeri – non è soltanto la storia di una grande scoperta. Anzi non lo è quasi per niente. È la cronaca di una vita normalmente assurda, passata dietro ai numeri e all’inseguimento di quel risultato che ogni matematico sapeva esistere e che aspettava solo di essere portato a galla. Villani non entra nel merito di Boltzmann e Landau, ma cosparge il libro di riferimenti, appunti, liste che finiscono per mescolarsi con le sue canzoni preferite – minuziosamente annotate – i suoi doveri di padre, i viaggi, e i manga che legge durante gli spostamenti.
Certo, c’è lo sforzo – insospettabile per gli uomini di scienza – che si traduce in sudore, in fisicità, in nervosismo. I vagabondaggi notturni, l’insonnia, la frustrazione e la voglia di lasciar perdere tutto. L’umanità che traspare attraverso il calcolo puro e che da sola trasmette la difficoltà del rincorrere un traguardo così grande, costruito su ore infinite di calcoli inarrivabili per chiunque non sia dotato di una pazienza e di un intuito del tutto fuori dal comune. Il genio, appunto.
Più che il metodo, sono raccontate le circostanze che portano alla scoperta. Quella serie di casualità, quell’assetto universale che permette di seguire la giusta pista, nelle giuste condizioni fisiche e mentali, in grado di stimolare la formulazione di un concetto nuovo. L’esercizio di Villani è l’esatto opposto della divulgazione scientifica: non si pone di far comprendere il risultato, quanto il processo che a quel risultato ha condotto. Ed è stupefacente quanto queste circostanze siano semplici, quanto una giornata di sole sia positiva e stimolante più di una giornata di pioggia. Basta una conversazione via email ad accendere un’intuizione determinate, basta uno spunto tratto dall’osservazione delle dinamiche sociali, dai movimenti delle persone sull’autobus, dall’ospitalità di un amico dall’altra parte del mondo. Basta un buon grado di determinazione e la giusta disposizione mentale.
«Senza i limiti non esisterebbe la creatività» ha detto il matematico nel corso di un’intervista all’ultimo Salone internazionale del libro di Torino, sballottato da una parte all’altra tra le varie presentazioni. Si riferiva ai limiti matematici, certo, ma anche alla condizione umana cui occorre un confine per avvertire l’impulso a superarlo. L’esistenza dei limiti determina l’esistenza del genio, colui che più si avvicina – con uno sforzo non indifferente – a dimostrare la semplicità, ovunque si trovi.