Quando ci guardiamo allo specchio, cosa vediamo realmente? L’io diviso è già al lavoro di prima mattina e appena esce di casa incontra tanti specchi quanti sono quei riverberi di società che gli propongono una delle tante possibili immagini del mondo. Mentre l’Istat mostra senza pietà le rughe dell’Italia contemporanea, le forze politiche che governano questo Paese continuano a non vederle ma a nasconderle con il loro makeup effimero. Così, tra il trucco e la chirurgia plastica, gli specchi riflettono salute e malattia: larghe intese e blocchi intestinali, tangenti e assegni famigliari, ricercatori e baroni.
C’è da chiedersi se non sia proprio questo lo statuto normale della realtà vivente che, a causa della sua inevitabile povertà, è costretta in una sorta di autoimmunità? L’arte, che per definizione è cosmetica, negli anni ’60 si è fatta povera inquanto zeppa di realtà. E uno di loro, Alighiero Boetti, ha fatto della povertà del muro uno spazio per la contemplazione. Lui che amava definirsi «shaman/showman», ha raddoppiato la propria identità giocando con numeri, lettere e mappe, per mostrare come il mondo fosse fatto di segni e di disegni, di grafici e graffiti.
Del resto, nell’universo delle lettere la realtà dello sdoppiamento, prima di essere saturata poeticamente dalla scrittura di Borges, aveva trovato nell’Alice di Carroll un fantastico espediente per mettere in luce l’incognita di quel pezzettino di realtá che non si vede perchè fa parte della Casa dello Specchio. Incognita che muove la curiositá di Alice alimentata dalla gatta Kitty, secondo cui la stanza al di là dello specchio è il luogo dove, benchè gli oggetti appaiano identici a quelli che stanno al di qua del diaframma, hanno in verità un’altra direzione.
Ecco perchè in questa vita povera di realtà bisogna chiedere a tutti gli strumenti riflettenti di mostrare l’altra direzione o almeno ammettere che con una forbice in mano e un cerchio nel mezzo di un foglio sono almeno due le possibilità che abbiamo per cominciare il lavoro.