Al verdetto manca pochissimo, ma la Corte Costituzionale è ancora divisa. Il punto di scontro è la decisione da prendere sul conflitto di attribuzioni, presentato a suo tempo dalla presidenza del Consiglio (era l’aprile 2011, e presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi) contro il Tribunale di Milano nell’ambito del processo Mediaset-diritti Tv. A novembre 2011 la Corte lo aveva dichiarato ammissibile. Da quel giorno sono passati 19 mesi, un governo tecnico è finito, se ne è creato un altro tecnico-politico, e la sentenza della corte d’appello è stata emessa (condanna). Eppure nulla è stato fatto: per opportunità politica e anche per valutare con attenzione le ragioni delle parti.
Il punto contestato è l’udienza del 1 marzo 2010, che Berlusconi aveva mancato a causa di un’improvvisa riunione di governo. Per il presidente del Consiglio, sostiene la difesa di Berlusconi, è inammissibile non presiedere: e l’atto in sé, del resto, giustifica il legittimo impedimento. D’altro canto, l’accordo preso con il tribunale era di fissare le udienze il lunedì, con l’impegno da parte di Berlusconi di lasciare libera la giornata. Della riunione con i ministri, invece, non c’era stato nessun avviso ai magistrati di Milano, che hanno ritenuto il suo atteggiamento “non collaborativo”. Chi ha ragione? La Consulta ci medita da tempo.
Adesso però, è arrivato il momento della decisione. Alcuni, che non raggiungono però la maggioranza, vorrebbero propendere a favore dell’ex premier, applicando in modo meno rigido che in passato la definizione di legittimo impedimento. Appare ragionevole, allora, pensare che il ricorso sarà bocciato. Ma cosa succederebbe se invece, a sorpresa, venisse approvato?
Il processo, come si diceva, è arrivato alla Cassazione, dopo la condanna in primo grado e in appello (quattro anni di carcere e cinque di interdizione ai pubblici uffici per frode fiscale). Con una pronuncia favorevole della Consulta ci sarebbe sì una scossa, ma sarebbe comunque macchinosa. Prima di parlare di azzeramento, ci sono ancora dei passaggi. La Consulta deve stabilire che, non accogliendo il legittimo impedimento, il tribunale di Milano ha leso il diritto alla difesa di Silvio Berlusconi. Soprattutto perché in quell’udienza vennero raccolte alcune testimonianze.
In secondo luogo, serve capire se quell’udienza contestata (quella che, se la Consulta accoglie il ricorso, non “s’aveva da fare”) abbia o no determinato il corso del processo. Cioè se, annullandola ex post, sia tutto da rifare (e in questo caso, visti i tempi della prescrizione – prevista per il 2014 – Silvio sarebbe salvo). Chi lo decide? Non la Consulta: non può esprimere un’opinione in merito. La parola tocca alla Cassazione, e potrebbe stabilire che, nell’economia del processo, l’udienza contestata sia marginale e quindi lasciare tutto com’è, in attesa della sentenza di terzo grado. Oppure rimandare il tutto al giudice ordinario, perché stabilisca il peso dell’udienza contestata nel processo.
In questo eventuale passaggio, il procedimento dovrebbe ricominciare proprio da quell’udienza, e ripetere tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione. In questo modo i termini di prescrizione arriverebbero prima, com’è probabile, della fine del processo. E per Berlusconi tornerebbe a sorridere il futuro.
Lo scenario, secondo le ultime voci, sarà però molto diverso. La Consulta deciderà per il no, respingerà il ricorso di Berlusconi e lascerà tutto intatto. Non sarà certo un segnale positivo per l’ex premier, che di fronte a sé ha altri difficili passaggi processuali (per altri processi, come il caso Ruby) e che apparirebbe, all’appuntamento con la Cassazione, anche “poco collaborativo” con la giustizia.
Ma non sarebbe finita, per lui, neppure se la Cassazione in terzo grado confermasse la condanna, perché c’è un passaggio ulteriore: il Parlamento. Come si premura di ricordare il costituzionalista Stefano Ceccanti, le disposizioni della sentenza della Cassazione dovranno passare dalla giunta per le autorizzazioni del Senato. E lì potrebbe anche essere respinta, con la salvezza di Berlusconi. E stavolta, forse, in nome della stabilità politica del governo delle larghe intese.