Wrotizla. Vretslav. Presslaw. Breslau. Wrocław. E Lwów. Lemberg. L’vov. L’viv. Tanti nomi per indicare, ironia della storia, due sole città: Breslavia e Leopoli. Oggi la prima si trova nel sudovest polacco; è, per la precisione, capoluogo della Bassa Slesia, un voivodato confinante con Germania e Repubblica ceca. La seconda, invece, è una città dell’Ucraina nordoccidentale, ed è capoluogo dell’oblast omonimo; come nel caso della Bassa Slesia, anche l’oblast di Leopoli confina con una nazione straniera: la Polonia.
Se Breslavia e Leopoli hanno tanti nomi, è perché hanno cambiato spesso padrone. Il loro destino è simile a quello di altre città “contese” che costellano l’Europa centrale e orientale. Ad esempio Trieste, chiamata Triest e Trst. O la lituana Vilnius, che in passato fu Wilno, Wilna, Vilna: basta mutare una lettera per mutare epoca, e dominatori.
Breslavia e Leopoli, dunque. Entrambe accomunate dalla dubbia benedizione di essere viste, dalle grandi (e piccole) potenze, come strategiche. Dal punto di vista geopolitico come da quello economico e commerciale. Non a caso la Slesia è sempre stata una delle regioni più prospere e dinamiche d’Europa. Incastrata tra mondo germanico e mondo slavo, è stata per secoli crocevia di popoli e lingue. Come ricordano gli storici britannici Norman Davies e Roger Moorhouse nel loro splendido saggio su Breslavia “Microcosmo” (Bruno Mondadori), prima dello scoppio della Grande Guerra in Slesia c’era addirittura un paesino dove i confini dei tre imperi europei (russo, austro-ungarico e tedesco) si toccavano: i viaggiatori potevano così tenere un piede in un impero, un piede in un altro e le mani in un altro ancora.
Regione ricca di acqua (il fiume Oder la taglia in due) e dal clima piuttosto favorevole, la Slesia fu una preda ambita sin dai tempi remoti della Grande Moravia. Lo Stato moravo, che dominò l’Europa centrale nella seconda metà del IX secolo, fu potente ma effimero. Si estinse presto, a causa di lotte interne e delle rovinose invasioni magiare. Gli subentrò la Boemia, che allargò la sua influenza alla Slesia, alla Slovacchia e alla Moravia.
Intorno all’anno Mille la Slesia passò a Mieszko, principe dei polacchi. Capostipite della dinastia dei Piasti, è a Mieszko che si deve la conversione (forzata) dei polacchi pagani al cattolicesimo. In quel periodo Breslavia era chiamata Wrotizla, e contava già abbastanza per essere scelta come sede vescovile, subordinata all’arcidiocesi dell’allora capitale polacca Gniezno: un legame, quello con la Chiesa di Polonia, che sarebbe durato per oltre ottocento anni.
Nonostante le ripetute invasioni boeme, la Slesia rimase polacca. Di più: la frammentazione interna della Polonia rafforzò il potere dei principi slesiani a tal punto che Enrico il Barbuto fu il re ufficioso di quasi tutta la nazione. Suo figlio, Enrico il Pio, ebbe meno fortuna: fu ucciso nella battaglia di Legnica. Oggi città industriale della Bassa Slesia, nel 1241 Legnica fu teatro dello scontro tra le armate polacco-germaniche al comando di Enrico, e gli invasori mongoli. Dopo aver distrutto Kiev e Cracovia, e assediato (invano) il castello di Breslavia, a Legnica i mongoli sterminarono gli avversari europei. Lo stesso Enrico fu decapitato, la sua testa infilzata su una picca.
Se a Legnica fu massacrato il fiore della nobiltà slesiana, nella quasi contestuale battaglia di Mohi i mongoli sbaragliarono le truppe ungheresi. Quindi le loro forze galopparono verso l’Austria e la Croazia (avanguardie furono avvistate persino in Friuli). Sembrò che tutta la Cristianità fosse condannata alla rovina. Poi avvenne il miracolo: i mongoli, per qualche motivo, tornarono indietro. Ancora oggi gli storici s’interrogano sul reale motivo di tale decisione. Che salvò l’Europa occidentale. Ma non quella orientale. Per quasi tre secoli i popoli slavi avrebbero avuto a che fare con l’Orda d’oro, il vasto e predatorio principato mongolo con capitale Sarai, su un ramo del fiume Volga.
La tragedia di Legnica azzoppò la Slesia. Nel 1335 il territorio fu ceduto da Casimiro il Grande ai boemi. Una scelta dettata da motivazioni geopolitiche condivisibili. L’ascesa (sostenuta proprio dai boemi) dei Cavalieri teutonici a nord, e la formidabile espansione dei lituani a est, richiedevano alla Polonia di smarcarsi a sud. E così la Slesia, fiorente snodo dei commerci tra Polonia e città tedesche, divenne boema. La capitale Breslavia fu ribattezzata Vretslav.
Conseguenza dell’attenzione polacca verso est fu la conquista, nella seconda metà del XIV secolo, di Leopoli: la gemma della Rutenia rossa, nell’odierna Ucraina occidentale. Secondo una tradizione oggi messa in discussione, a fondare Leopoli fu una delle figure più significative della storia ucraina: il principe ruteno Danylo, che creò la città alla metà del XIII secolo, imponendogli il nome del figlio Lev.
Non era un homo novus, Danylo. Alla fine del XII secolo suo padre Roman aveva unificato, per breve tempo, non solo la Galizia e la Volinia (entrambe nell’Ucraina occidentale), ma quasi tutta l’Ucraina. Naturalmente usando metodi da autocrate. “Non puoi avere il miele se prima non uccidi le api”, soleva dire: un’allusione ai boiardi schiacciati nella sua sanguinosa ascesa al potere.
Danylo fu altrettanto brutale, ed efficiente. Guerriero di fama (ventenne aveva combattuto contro le armate mongole sul fiume Kalka), riuscì a riunificare Galizia e Volinia. Leopoli, al centro dei traffici tra il Mar Baltico e il Mar Nero, divenne un polo regionale: arrivarono mercanti e artigiani polacchi, tedeschi, armeni, tatari ed ebrei, così come profughi ruteni in fuga dai mongoli.
In una terra di frontiera come l’Ucraina, però, né la forza delle armi né l’arma del denaro erano sufficienti. Serviva l’astuzia. Danylo lo capì quando Batu Khan, signore dell’Orda d’oro, lo convocò al suo cospetto. A Sarai Danylo bevve latte fermentato di cavalla, e rese formale atto di sottomissione al potere mongolo. Quindi cercò alleanze a ovest. Offrì al papa la giurisdizione ecclesiastica sul suo principato di fede ortodossa, e ricevette in cambio la corona di rex Russiae.
Un sostegno papale alla guerra contro Batu Khan: era questa la speranza di Danylo. Ma benché i mongoli fossero considerati da tutta Europa i “cavalieri dell’Apocalisse”, più simili a mostri che a uomini, nessuna crociata contro di loro fu mai proclamata. In compenso l’Orda d’oro non gradì l’attivismo diplomatico di Danylo. Alla fine i mongoli costrinsero il rex Russiae a smantellare le fortificazioni urbane (incluse quelle di Leopoli), e a unirsi a un’invasione della confinante Lituania. Per Danylo fu un boccone amarissimo. Tuttavia la sua creatura, la Galizia-Volinia, riuscì a preservare una forte autonomia.
La potenza commerciale di Leopoli era tale che nel 1270 divenne capitale della Galizia-Volinia. Un documento armeno del secolo seguente la descriveva, senza tema di eccedere con i superlativi, come “benedettissima e nobilissima metropoli, protetta da Dio.”
E in effetti sotto il figlio di Danylo, Lev, la Galizia-Volinia conobbe un’ulteriore fase di crescita. Non solo economica e territoriale, ma culturale. Multietnica e pluriconfessionale, assunse quel carattere ibrido che l’avrebbe caratterizzata nei secoli a venire. E mentre il resto dell’Ucraina scivolava nel caos, essa fioriva, diventando una roccaforte dell’orgoglio proto-ucraino. Nella seconda metà del XIV secolo, però, i boiardi rialzarono la testa, e pure la Galizia-Volinia sprofondò nel caos. A tutto vantaggio delle vicine Polonia e Lituania. Leopoli fu conquistata dal re polacco Casimiro il Grande, e divenne Lwów.
Breslavia, intanto, si arricchiva. Il passaggio dalla Polonia alla Boemia accelerò il processo di germanizzazione della Slesia. La Boemia infatti faceva parte del Sacro Romano Impero. Romano di nome, ma tedesco di fatto. In atto sin dal XII secolo, con l’arrivo dei primi coloni agricoli tedeschi, la germanizzazione contribuì in maniera decisiva alla trasformazione di Breslavia in una città-stato autonoma governata da una ricca élite di lingua tedesca. Il boom comportò anche un’espansione demografica che nella seconda metà del XV secolo fece arrivare la città a circa ventimila abitanti.
La natura commerciale e frontaliera di una Breslavia in piena espansione, dove affluivano mercanti da ogni angolo d’Europa, si desume anche dalla sua struttura urbana. Era infatti divisa in quattro quartieri dai nomi evocativi: il quartiere dei macellai, il quartiere dei ruteni, il quartiere dei pellicciai e il quartiere del mercato nuovo. In realtà c’era anche un quinto, frequentato quartiere: quello “a luci rosse” di Venusberg, dove le prostitute esercitavano con profitto il loro mestiere, per la gioia del fisco che ne tassava le attività.
Nel XIV, e soprattutto nel XV secolo, anche Leopoli visse una fase di boom. Il re Casimiro il Grande, fiducioso com’era nel primato del diritto, aveva infatti concesso alla città rutena una larga autonomia amministrativa, a tutto vantaggio del ceto mercantile locale, spesso di origine tedesca. Sotto la protezione dei sovrani di Polonia, Leopoli divenne il principale hub dei commerci tra i vasti domini polacchi e l’Oriente. Robustamente fortificata, capitale del voivodato di Rutenia dalla prima metà del XV secolo, divenne il baluardo della Polonia contro le scorribande dei tatari di Crimea (dietro i quali c’era spesso la longa manus dell’Impero ottomano).
Agli inizi del XVII secolo Leopoli sfiorò i trentamila abitanti; una cifra alta considerando che Danzica, la maggior città della Confederazione polacco-lituana, aveva cinquantamila abitanti, contro i diecimila di Varsavia. Un mercante tedesco paragonò Leopoli a Venezia: popolosa ed eterogenea, girando per le sue strade ci si imbatteva in uomini di ogni nazione; e benché il Mar Nero fosse lontano quasi un migliaio di chilometri, si vedevano così tanti marinai da credere di trovarsi in una città portuale. Insomma, Leopoli era un vero melting-pot: oltre a polacchi, tedeschi, ruteni, armeni, tatari ed ebrei, ospitava greci, ungheresi, scozzesi, cechi, rumeni. I leopolini divennero, per forza di cose, gente tollerante e aperta.
Se Leopoli cresceva impetuosamente, lo stesso non poteva dirsi per il resto della Galizia. D’altra parte la stessa Polonia era un’economia agraria, che puntava sull’esportazione di cereali e legname per tenere in attivo la sua bilancia commerciale. Per la nobiltà polacca, famelica, prolifica e vanagloriosa, le fertili terre nere ucraine rappresentavano una facile opportunità di arricchimento; e infatti l’Ucraina avrebbe ricevuto l’inquietante soprannome di “Indie della Polonia”.
La polonizzazione della Galizia spinse i boiardi ruteni ad abbracciare il cattolicesimo, e a rivendicare con i nobili polacchi comuni origini “sarmate”. Nel 1596 nacque la Chiesa uniate, che combinava riti ortodossi e dogmi cattolici. Quattro decenni dopo fu costituita la Chiesa cattolica armena.
Fu un’altra battaglia a cambiare il destino della Slesia. Quella, catastrofica, di Mohács, nel 1526. Quando gli ottomani di Solimano il Magnifico sbaragliarono l’esercito guidato da Luigi II, giovane e debole re di Ungheria e Boemia. Luigi perì, e la Slesia passò così agli Asburgo, al pari delle corone di Boemia e di Ungheria. Tale sarebbe rimasta fino al 1741.
Rinominata Presslaw, Breslavia era ormai una città prevalentemente tedesca, e soprattutto protestante. Ai cattolici Asburgo il protestantesimo non piaceva, ma con i turchi alle porte e i forzieri sempre vuoti, si poteva chiudere (o almeno socchiudere) un occhio sull’eresia della ricca Breslavia. Nelle campagne, poi, il cattolicesimo era più radicato: per esempio l’icona della Madonna donata dal papa a Jan Sobieski, il re polacco che aveva salvato Vienna dagli ottomani nel 1683, era veneratissima tra gli slesiani cattolici; specialmente tra quelli della minoranza polacca.
La Guerra dei trent’anni, scoppiata in Boemia nel 1618, e conclusasi solo con la Pace di Westfalia nel 1648, si abbatté con furia sulla Slesia, falcidiandone gli abitanti. Breslavia, tuttavia, riuscì a salvarsi dalla distruzione (a differenza di altre città commerciali tedesche, come la sfortunata Magdeburgo), conservando la propria fede protestante.
Nella prima parte del XVIII secolo la Slesia conobbe una fase di impetuoso sviluppo. Si trasformò nella più florida provincia dell’Impero asburgico: grazie al boom del tessile, e alle ingenti risorse minerarie (dal piombo al ferro, dall’oro al carbone), la sua economia arrivò a valere oltre il 20% del gettito fiscale dell’Impero, pur con appena il 10% dei contribuenti.
La ricchezza della Slesia non poteva che far gola alle potenze vicine. In particolare a una: la Prussia, Stato assoluto della Germania settentrionale. Sotto il regno di Federico Guglielmo I (il “re-soldato”), la Prussia si era trasformata in una vera potenza militare. Per fare le guerre, però, servivano denari. E la ricca Slesia di denari ne aveva molti, al contrario della Prussia rurale. Non stupisce che il figlio di Federico Guglielmo, Federico II (passato alla storia come il Grande), la invadesse, con un pretesto, nel dicembre del 1740.
All’inizio i tedeschi protestanti di Slesia, spremuti dal fisco della cattolica Austria, accolsero i soldati della Prussia protestante a braccia aperte: Federico aveva la fama di re illuminato, culture delle arti e delle scienze, stimato persino da Voltaire. Nessuno poteva immaginare quanto l’Austria avrebbe lottato prima di cedere la Slesia, il gioiello della corona asburgica, al “perfido” Federico. E in effetti per la Slesia la Prussia versò, e fece versare, molto sangue (lo stesso Federico avrebbe meditato il suicidio). Quattro grandi battaglie furono combattute non lontano da Bresslau, alias Breslavia. La più nota fu quella di Leuthen, nel 1757, dove Federico dimostrò di essere uno dei maggiori tattici della storia.
Napoleone avrebbe definito Leuthen “un capolavoro di manovre e risolutezza”. Tuttavia la guerra per la Slesia sarebbe finita solo nel 1763. Morte e devastazione non furono l’unico prezzo che Breslavia dovette pagare come tributo al suo nuovo padrone: il centralismo prussiano tollerava le autonomie locali ancor meno del paternalismo austriaco, e provvide a rimettere in riga la città-stato, spogliandola dei suoi privilegi medioevali.
Le cose andavano ancora peggio in Galizia. Anzi. Gli anni a cavallo tra il XVII e il XVIII secolo furono gli anni del collasso. Le guerre, le rivolte interne e lo spostamento dell’asse commerciale europea a ovest rovinarono l’economia locale. Nel 1704 le truppe svedesi al comando di Carlo XII espugnarono Leopoli, saccheggiandola senza pietà. Nel 1772, con la prima spartizione della Polonia, arrivò l’onta finale: l’annessione della Galizia all’Impero asburgico. Un’umiliazione cocente, per una città che della fedeltà alla Polonia aveva fatto il suo motto.
Neanche gli austriaci erano troppo entusiasti del nuovo acquisto. Nel 1773, ad appena un anno dall’annessione della Galizia, l’imperatore Giuseppe II scriveva al fratello Leopoldo, granduca di Toscana: “mi accingo a partire per la Galizia; altri guai [in italiano nel testo].” Come profetizzato, lo snob Giuseppe II trovò orrenda la Galizia, con le sue strade fangose, i suoi contadini senza nulla di umano “eccetto la forma umana e la vita fisica”, gli intrighi dei signorotti locali.
Il nuovissimo regno di Galizia e Lodomeria, come fu chiamato dagli austriaci ricollegandosi al principato medievale di Danylo, aveva come sua capitale Leopoli, ora Lemberg. Ma diversamente della Slesia sotto Berlino, la Galizia sotto Vienna non conobbe una vera modernizzazione economica. Rimase una terra popolosa, e tuttavia povera. La sua unica industria degna di nota fu quella petrolifera (e in effetti tra il 1850 e il 1920 la Galizia fu il quinto produttore mondiale di greggio). Tuttavia conservò il suo carattere multietnico: nel 1857 quasi il 45% della popolazione era composto da ruteni di fede uniate, un altro 45% da polacchi cattolici e il rimanente 10% da ebrei. Ormai tagliata fuori dai maggiori traffici regionali, Leopoli dovette gran parte della sua crescita all’essere capitale del regno. Un boom artificiale, quindi. Alimentato dagli uffici burocratici.
Il dominio austriaco della Galizia comportò, all’inizio, una germanizzazione della stessa. Leopoli, con i suoi caffè eleganti, la sua pulizia e il suo splendido centro storico, ricordava ai viaggiatori tedeschi la madrepatria. Gli austriaci la chiamavano “la piccola Vienna”. Per i polacchi, che costituivano oltre la metà della cittadinanza, ciò era inaccettabile: Leopoli divenne un centro di acceso nazionalismo polacco. E alla fine Vienna dovette arrivare a più miti consigli. Negli anni Sessanta del XIX secolo la Galizia ottenne l’autonomia, e il polacco divenne la lingua ufficiale del regno. Alla vigilia della Prima Guerra Mondiale Leopoli, con i suoi duecentomila abitanti, era sotto molti aspetti una città polacca.
Nel 1866 Austria e Prussia combatterono per la supremazia nel mondo germanico. Breslavia e Leopoli si trovarono in campi contrapposti. Con la vittoria prussiana di Sadowa fu chiaro a tutto il mondo che era nata una nuova potenza europea. Quattro anni dopo, a Sedan, le forze prussiane sconfissero i francesi di Napoleone III. Nel gennaio del 1871, nella Galleria degli Specchi a Versailles, fu proclamata la nascita dell’Impero tedesco. Breslau ora faceva parte dello Stato più potente dell’Europa continentale.
Fatto l’Impero tedesco, bisognava fare i tedeschi. A scapito delle minoranze, linguistiche o religiose che fossero. I polacchi di Slesia erano cattolici e, appunto, polacchi. Ciò piaceva poco a molti tedeschi di Slesia, che dai tempi del dominio prussiano si lamentavano della “polonizzazione” della provincia. In fondo lo stesso Federico il Grande aveva descritto i polacchi come “vegetali, [che] vivono senza vergogna”. Nel nuovo Impero la lingua e la cultura polacca subirono così crescenti limitazioni, spingendo un gran numero di polacchi slesiani ad abbracciare un nazionalismo sino ad allora poco praticato (non a caso i tedeschi solevano chiamarli Wasserpolaken, polacchi annacquati).
Quando la Prima Guerra Mondiale scoppiò, con il suo mezzo milione di abitanti Breslavia era la settima città dell’Impero tedesco. Centro manifatturiero e finanziario di prim’ordine, poteva contare su un hinterland in pieno boom: infatti le miniere di ferro e di carbone avevano trasformato l’Alta Slesia nel secondo polmone industriale tedesco dopo la Ruhr. Certo, Breslavia si trovava alla periferia dell’Impero, lontana da metropoli come Berlino, Amburgo o Monaco. “I veri berlinesi vengono tutti da Breslavia”, si malignava nella Germania occidentale. Tuttavia grazie ai suoi ottimi centri di istruzione superiore, alla laboriosa minoranza polacca e una folta comunità ebraica, la città sull’Oder vantava una vivacità culturale più unica che rara.
Durante la Prima Guerra Mondiale Leopoli e Breslavia si ritrovarono di nuovo dalla stessa parte della barricata. Ma per poco. In quattro anni sia l’Impero tedesco che quello austro-ungarico collassarono. Il primo però sopravvisse, sotto le spoglie di una fragile repubblica democratica; il secondo invece si disgregò. Risorsero nazioni che la storia sembrava aver cancellato per sempre, come la Cecoslovacchia e la Polonia.
Guidata dal maresciallo Józef Piłsudski, la nuova Polonia indipendente era un miscuglio di nazionalismo, socialdemocrazia e autoritarismo. Memore della gloriosa Confederazione polacco-lituana, Piłsudski sognava una grande federazione (a guida polacca) che includesse l’Ucraina, la Bielorussia e i Paesi baltici. La Slesia doveva tornare alla Polonia, o almeno questo doveva essere il destino dell’Alta Slesia. E in parte così fu: il 39% dell’Alta Slesia divenne polacca, e con essa gran parte degli impianti industriali, delle miniere di carbone e le città di Katowice e Królewska Huta. La Bassa Slesia e Breslavia, invece, rimasero saldamente tedesche.
Diverso il destino di Leopoli, dove oltre metà della popolazione era polacca e quasi un terzo ebrea. Con il crollo dell’Impero austro-ungarico la città riscoprì la sua fedeltà verso l’antica, e mai dimenticata, patria polacca. E infatti la gioventù leopolina (o almeno quella di nazionalità polacca) si batté sino allo stremo pur di riunire Leopoli alla Polonia. Prima combattendo contro i nazionalisti ucraini, che volevano annettere la città a un’effimera Ucraina indipendente. Poi contro l’Armata rossa, nella sua marcia verso occidente (fermata una volta per tutte proprio dal maresciallo Piłsudski, sulla Vistola, nel 1920). A costo di sacrifici sovraumani, Leopoli tornò polacca. Divenne, ancora una volta, Lwów.
Nel 1939 Germania e Urss invasero la Polonia, rispettivamente da ovest e da est. Leopoli divenne la sovietica L’vov, ma solo per poco. Nel 1941 Berlino lanciò l’invasione dell’Urss, e Leopoli fu tra le prime città a cadere. Ribattezzata Lemberg, fu scelta come capoluogo del Distrikt Galizien. Divenne tristemente celebre per i vergognosi pogrom che gli occupanti nazisti organizzarono con il sostegno fattivo di fascisti ucraini.
La popolazione ebraica di Leopoli che riuscì a sfuggire ai pogrom fu rinchiusa in un ghetto nella parte settentrionale della città. Gran parte di essa fu deportata nei lager, o massacrata sul posto. Quando i sovietici liberarono Leopoli nel 1944, rimanevano in vita poche centinaia di ebrei. Una comunità che aveva prosperato per secoli era stata spazzata via dalla terra in una manciata di anni.
La tragedia della comunità ebraica di Breslavia fu meno immane solo quanto a cifre. Oltre due terzi degli ebrei breslaviani avevano lasciato la città prima della guerra, terrorizzati dalla violenza antisemita dei nazisti. Coloro che rimasero, ad esempio perché poveri, vecchi o malati, furono deportati, insieme ad altri profughi, tra il 1941 e il 1943. Alla fine sopravvissero meno di duecento ebrei di Breslavia.
Nel gennaio del 1945 la sconfitta della Germania appariva certa anche agli occhi di molti nazisti. Con l’Armata Rossa sempre più vicina al cuore del Reich, resistere a est divenne, per Berlino, un espediente per prendere tempo. Nella speranza di arrivare a un qualche accordo di pace con gli angloamericani a ovest, in chiave anti-sovietica. In questo terribile gioco Breslavia era solo una pedina. Trasformata in festung (fortezza), la città dovette reggere il poderoso urto dell’offensiva sovietica. I combattimenti furono disperati, ma alla fine la “Stalingrado tedesca” dovette arrendersi. Il 6 maggio 1945, quattro giorni dopo la caduta di Berlino, cadde pure Breslavia. Il 7 maggio la città fu incendiata dai nuovi padroni sovietici, in un folle crescendo di stupri, saccheggi e violenza.
La pace, infine, arrivò. Ma i suoi frutti non furono poi così dolci. Breslavia, per secoli città tedesca, divenne polacca. D’ora in poi sarebbe stata Wrocław. Leopoli, alla Polonia semper fidelis, fu invece annessa alla Repubblica socialista sovietica ucraina. Cioè, all’Urss. La Galizia storica divenne ucraina, la Slesia polacca.
I tedeschi furono espulsi in massa da Breslavia, che tornò a essere una città quasi del tutto slava. Merito anche dei tanti profughi polacchi da Leopoli. Terrorizzati dall’idea di vivere sotto Stalin, fuggirono alla volta della Slesia. Molti di loro erano intellettuali, professionisti o docenti universitari, e avrebbero costituito il nocciolo duro della nuova università polacca di Breslavia.
Il poeta polacco Adam Zagajewski, nato a Leopoli nel 1945 ma emigrato bambino nell’Alta Slesia, ha descritto la città natia come il luogo “dove dormono i leoni.” In realtà il sonno, dal secondo dopoguerra al crollo dell’Unione sovietica, non avvolse solo Leopoli. Anche Breslavia. Immerse nel torpore grigio del socialismo reale, le due città dovettero attendere gli anni Novanta per svegliarsi.
Oggi Leopoli si chiama L’viv. Dal 1991 fa parte dell’Ucraina. Con i suoi settecentomila abitanti, è una delle principali città ucraine. E forse è la più bella, grazie al suo centro storico, dove si mescolano edifici medioevali, rinascimentali e barocchi. Da sempre con lo sguardo rivolto a Occidente, Leopoli è un bastione del liberalismo filo-europeo: alle elezioni presidenziali del 2010 la città e l’oblast di Leopoli hanno votato per Yulia Tymoshenko, la pasionaria della Rivoluzione arancione arrestata dalle autorità ucraine.
Oggi la Slesia, al pari della Galizia, non esiste più. Quasi tutta compresa nella Polonia, è composta da tre voivodati: Opole, Bassa Slesia e Slesia. Gli ultimi due sono tra i più ricchi del Paese. E a causa della diffusione del dialetto e della cultura slesiani, l’identità regionale è più forte che altrove. Prova di ciò sono state le elezioni regionali del 2010, quando il Movimento per l’autonomia slesiana (RAŚ) ha vinto tre seggi all’assemblea regionale del voivodato della Slesia. Una novità, per una nazione patriottica come la Polonia. Divise dai confini nazionali, le città “contese” di Leopoli e Breslavia sono accomunate dal passato: talvolta glorioso, spesso tragico, sempre complicato; europeo, in una parola.
Twitter: @gabrielecatania