Mediobanca è ormai periferia di Trieste

C'era una volta il salotto buono

Scrivi Mediobanca, leggi Generali. Come filtrato nei giorni scorsi, la pulizia di bilancio da 400 milioni ha comportato una perdita di 180 milioni di euro e nessun dividendo per l’anno fiscale 2013 (giugno 2012 – giugno 2013). Coerentemente con il piano industriale al 2016 presentato lo scorso giugno, e guardando all’obiettivo di diventare più banca e meno holding di partecipazioni – per sua natura scambiata più a sconto – sono state svalutate tutte le partecipazioni del “salotto buono”, (confluite nella nuova divisione “principal investing”) tranne appunto il 13,24% del gruppo assicurativo triestino. Il quale garantisce stabilità nell’ambizioso percorso di transizione delineato prima della pausa estiva.

A cominciare dalla quota in Telco, holding che controlla il 22,5% di Telecom Italia: il taglio del prezzo di carico a 53 centesimi (oggi ha chiuso a 51 cent a -0,91%) è costato ben 320 milioni. Ci sono poi le cartiere Burgo (45 milioni), la holding dei Benetton Sintonia (33 milioni), la società attiva nelle cliniche private del fratello di Salvatore Ligresti, Antonino, Génerale de Santè (25 milioni) e la riclassificazione in “attività disponibile per la vendita” del 15% di Rcs, società editrice del Corriere (38 milioni), e delle quote in Gemina e Pirelli, anch’esse in vendita e perciò svalutate rispettivamente per 23 e 66 milioni di euro. La scelta di mantenere Sintonia, pur allineandola al fair value, e non la controllata Gemina, ha detto l’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel, deriva dall’evitare la duplicazione del rischio sostanzialmente sullo stesso asset dopo la fusione tra quest’ultima e Atlantia.

Inevitabilmente, il convitato di pietra alla presentazione dei conti è Generali. Dalla compagnia guidata da Mario Greco non solo dipendono 3 (il valore di libro è 2,4) dei 4,3 miliardi di capitalizzazione, ma anche la profittabilità dell’asse Mediobanca – Generali – Unicredit, all’8,6% di Piazzetta Cuccia. Il Leone, nonostante la volontà dichiarata di concentrarsi sul core business, ha preso tempo fino a fine mese per dare disdetta dal patto di sindacato tramite il quale detiene il 2% diretto e lo 0,23% via Fin.Priv., partecipata da Fon-Sai, Italmobiliare, Pirelli e Telecom. Come spiega un banchiere a Linkiesta: «Controllare Mediobanca significa mantenere Generali italiana. Se quest’ultima si rimette in sesto, si risana anche Mediobanca e nessuno litiga».

Il riferimento è a Telco, dove il 46,18%  è in mano agli spagnoli di Telefonica, il 30,58% a Generali e l’11,62% a Mediobanca e a Intesa Sanpaolo. Un condominio dove tutti litigano e Telecom Italia, bisognosa di un progetto industriale a detta persino del suo presidente esecutivo, Franco Bernabè, rischia il declassamento a livello spazzatura del suo debito monstre da 30 miliardi. «Il nostro obiettivo è disinvestire, rimanere in una holding illiquida non ci avrebbe messo nelle condizioni di farlo, e se questo è il nostro obiettivo non parteciperemo ad alcun eventuale aumento di capitale» ha detto Nagel nel corso della call con gli analisti.

Rispondendo a una domanda di Matteo Ghilotti, analista di Equita Sim, Nagel ha poi specificato: «A oggi non abbiamo ricevuto da Generali alcuna lettera di disdetta ma la mia personale raccomandazione è che uscire dal patto sia più coerente con il core business, aiuti ad allocare il capitale con più efficienza ed elimini i dubbi sul corporate Italy». Dopo la prevista disdetta di Unipol, che ha ereditato dal Fon-Sai il 3,83% sindacato di Mediobanca, subordinato dall’Antitrust al via libera all’epoca della fusione, all’interno dei tre gruppi di pattisti i pesi e i contrappesi si sono livellati: Unicredit e Mediolanum sono stabili al 12%, il gruppo B (che include i soci industriali Angelini, Gavio, Romano Minozzi, etc) scende a 15,23% e i francesi del gruppo C (Bolloré e Groupama) all’11 per cento. Livello che per statuto non può aumentare a meno del disco verde dell’assemblea.

Meno holding e più banca, a guardare i conti, è una formula ancora da riempire di contenuti. La restituzione dei 3,5 miliardi di fondi europei attraverso Ltro avverrà «progressivamente». Chiarendo i dubbi di Matteo Ramenghi di Ubs, Nagel ha osservato: «La ripresa in Italia è ancora fragile, ci aspettiamo soltanto una parte delle imprese italiane ne trarrà beneficio». Il che avrà sicuramente un impatto sull’attività di consulenza alle Pmi, uno degli elementi chiave nella nuova strategia delineata dal consiglio d’amministrazione lo scorso giugno.

Guardando dunque soltanto al core business, il margine d’interesse (Nii) scende del 4% – ma ben del 18% per l’attività wholesale – anno su anno a 1 miliardo di euro per via delle frenata di corporate e private banking (da 349 a 286 milioni), i profitti da trading calano del 36,7% (da 266 a 168 milioni) e le commissioni si contraggono del 15,3% (409 milioni contro 483) a causa del «minor livello di attività del wholesale banking (-26,6% a 198 milioni)», recita la nota stampa. Ovvero consulenza e finanza strutturata, territorio di specializzazione elettiva di Piazzetta Cuccia. Almeno da piano. Di contro, aumenta da 11,6 a 11,9 miliardi la raccolta presso la clientela di CheBanca! e i prestiti, da 9,2 a 9,4 miliardi, mentre i mutui si contraggono da 4,3 a 4,2 miliardi da giugno 2012 a giugno 2013. I crediti dubbi salgono a 989 milioni (+85 milioni anno su anno), di cui le sofferenze (crediti non più recuperabili, ndr) ammontano a 262 milioni con un tasso di copertura del 66 per cento. L’indice di solidità patrimoniale Core Tier 1 si assesta all’11,7% (ma ai fini di Basilea III è al 7,8%, secondo i calcoli di Morgan Stanley). Morale: meno male che il Leone c’è. Fuori dal patto, però.

Twitter: @antoniovanuzzo

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