Il messaggio alle Camere del presidente Napolitano ha riportato il dramma del sovraffollamento delle carceri al centro del dibattito politico. I partiti si sono divisi tra di loro, e al loro interno, sulle soluzioni possibili e auspicabili tra quelle indicate dal Quirinale. L’amnistia e l’indulto in particolare sono stati oggetto di un fuoco di sbarramento, più o meno esplicito, trasversale agli schieramenti. Il ministro Cancellieri, a fronte di questa situazione, sta studiando soluzioni alternative ai provvedimenti di clemenza per ottenere una riduzione della pressione carceraria, giunta a livelli straordinari. Se non per una questione etica almeno per una economica: secondo i conti del Ministero l’Italia rischia una multa di 100.000 euro ogni sette detenuti che fanno ricorso. «Ogni anno dovremo pagare multe per 60-70 milioni», sintetizza la Cancellieri.
«Quanto prima le nostre proposte saranno portate all’esame del Consiglio dei Ministri per l’approvazione in vista della presentazione al Parlamento», ha dichiarato il 17 ottobre il Guardasigilli. In particolare si vorrebbe intervenire riducendo il ricorso alla misura cautelare della custodia in carcere, il provvedimento con cui si possono trattenere in cella persone ancora formalmente innocenti ma su cui pesano gravi sospetti e che lasciare in libertà sarebbe pericoloso. Ad oggi dei quasi 65 mila detenuti in carcere (a fronte di 47 mila posti letto) circa 25 mila sono in custodia cautelare. Un maggior ricorso a misure alternative al carcere – come i domiciliari, l’affidamento ai servizi, l’obbligo di firma etc – ridurrebbe l’affollamento delle prigioni italiane. Una seconda via per ottenere lo stesso risultato, che pare sia allo studio del ministero della Giustizia, è quello di depenalizzare alcuni reati minori.
Il Partito Democratico, prima con Renzi e poi con il responsabile carceri Sandro Favi, ha indicato tra le altre la legge Fini-Giovanardi come una delle prime su cui intervenire. La norma, risalente al 2005, disciplina il contrasto alle sostanze stupefacenti e alla sua entrata in vigore equiparò le droghe leggere e quelle pesanti, eliminando ogni distinzione anche in quanto a entità della pena.
Secondi i dati del ministero dell’Interno il 40% dei detenuti si trova in prigione per reati connessi alle droghe. Nella metà dei casi si tratta di piccolo spaccio di hashish e marijuana. Questo reato fino al 2005 era punito con la detenzione da 2 a 6 anni, ora – essendo stato equiparato allo spaccio di allucinogeni o oppiacei – con la detenzione da 6 a 20 anni. Secondo il rapporto presentato lo scorso giugno al Parlamento da Società della ragione, Forum droghe, Antigone e il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza sono solo 761 detenuti sul totale ad essere dentro per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. Gli altri (oltre 20 mila) sono “pesci piccoli”.
Il giro di vite sui piccoli spacciatori non ha ottenuto gli effetti sperati, anzi. L’uso di cannabis in Italia nel 2013 è tornato a crescere, secondo quanto rilevato dal Dipartimento Politiche Antidroga, e in base a uno studio Onu del 2012 siamo il primo paese occidentale per consumo di droghe leggere. In compenso le carceri stanno esplodendo. Un intervento sulla regolamentazione delle droghe potrebbe, secondo le simulazioni, avere un effetto paragonabile a quello di un indulto di 3 anni. I posti che si libererebbero in carcere sarebbero migliaia. Ma un governo di grande coalizione, in cui uno dei partiti di maggioranza ha fatto della legge Fini-Giovanardi una propria bandiera, rischia di non trovare un accordo sulla materia.
La soluzione potrebbe allora arrivare – come già successo in passato per altri temi scottanti come, ad esempio, la procreazione assistita o il reato di clandestinità – dal potere giudiziario. La legge che reprime i crimini legati agli stupefacenti è stata rinviata lo scorso giugno dalla Cassazione alla Consulta per sospetta incostituzionalità. A parte una questione procedurale circa l’iter di approvazione della legge – il governo avrebbe proceduto d’urgenza quando non ce ne erano i presupposti – si contesta la sproporzione tra pena e reato per lo spaccio di droghe leggere. Se i giudici costituzionali dovessero ritenere violati i principi della Carta potrebbero bocciare la legge, in tutto o in parte. A quel punto il Parlamento sarebbe probabilmente chiamato a intervenire. L’allarmante tasso di suicidi in carcere e le condizioni disumane di migliaia di detenuti dovrebbero però consigliare il legislatore a non aspettare i tempi della giustizia italiana.
Twitter: @TommasoCanetta