Sembra trascorso un secolo. E invece solo otto mesi fa Pd e Pdl si preparavano a ridiscutere il proprio consenso elettorale. Nel febbraio 2013 sbarcano ai seggi tre formazioni esordienti della politica italiana: nuovi simboli, facce diverse, programmi ambiziosi che puntano a catturare il voto dei delusi, degli eterni astenuti, dei giovani indignati.
La compagine più attesa? Scelta Civica, aggregatore di centro guidato da Mario Monti, deciso a “salire” in politica dopo l’esperienza cuscinetto del governo tecnico. Dismesso il loden, il prof ha indossato un kimono quantomai scomodo per una competizione elettorale in cui barcamenarsi tra disagio e inesperienza. L’obiettivo era la creazione di un polo di moderati partendo da una squadra che annoverava società civile varia ed eventuale, pezzi di associazionismo cattolico, i montezemoliani di ItaliaFutura, ma anche i tirannosauri di Udc e Fli.
Un calesse variegato, forse troppo, in un periodo che di stravolgimenti politici ne ha ingoiati fino all’indigestione. Smarriti i finiani, con la componente liberale ridotta al ruolo di comparsa, l’epilogo ha registrato le dimissioni di Monti da presidente del partito. In queste ore tiene banco la spaccatura tra i fedeli alla linea dell’ex premier con un occhio a Renzi, e gli ex Udc affiancati dal ministro Mario Mauro che invece guardano al centrodestra di Alfano per costruire una compagine di popolari da incardinare nel Ppe. La conta interna, che presto potrebbe portare al divorzio, è uno stillicidio: se alla Camera il pallottoliere sorride ai deputati montani, al Senato prevarrebbe la linea dei popolari, il tutto mentre i sondaggi danno Sc in caduta libera al 3 per cento.
Tra le fila del terzo polo avrebbe dovuto e voluto esserci un’altra compagine, poi ignorata dallo stesso Monti: Fare per Fermare il Declino. La carovana di accademici ed economisti si poneva l’obiettivo difficile e affascinante, fallito da tanti nel passato: riunire la famiglia dei liberali sotto un’unica insegna, la freccia bianca che punta in alto a destra «come in un grafico della crescita economica». Il frontman era tra i piú graditi sulla piazza: quell’Oscar Giannino sagace e bastian contrario, che secondo alcuni avrebbe potuto gonfiare le vele di Fare fino al 4%, la soglia di un sogno chiamato Montecitorio. Poi la vicenda dei falsi titoli di studio ha divorato i rapporti umani all’interno del movimento e sconquassato una base che fagocitava sempre più indecisi. Incassato il flop elettorale, è arrivato lo show-down con rese dei conti, addii e spaccature mentre Michele Boldrin prendeva il timone della nave.
Oggi l’economista padovano gira l’Italia tra conferenze e banchetti, scongela i 70.000 aderenti e 28.000 volontari per un una nuova missione: arrivare alle elezioni Europee rilanciando l’esperienza di Fare e aprendo ad altre sigle. Insieme a Pli, Liberali Italiani, Partito Federalista Europeo e Uniti Verso Nord «inizia un processo di confronto attraverso cui si vuole far nascere il partito che non c’è ma di cui l’Italia ha disperato bisogno». Le rinnovate ambizioni di Fare devono scontrarsi coi malumori interni, a partire dalla mano alzata dell’ex coordinatrice Silvia Enrico: «Le Europee? Non sono un obiettivo primario e federarci con altri movimenti rischia di annacquare il nostro messaggio». Nella disputa emergono pure i mal di pancia di chi vorrebbe approfittare della svolta di Scelta Civica per riannodare la trama di un’alleanza più volte sfiorata.
Chi dall’inizio ha rifiutato parentele è stato il Movimento 5 Stelle, matricola della politica nazionale sottostimata nei sondaggi, snobbata dalla stampa e derisa dai competitor fino ad un minuto prima dello scrutinio elettorale. Poi il boom, con i mesi di ambientamento a Palazzo, le diatribe interne, la comunicazione, le accuse su strategia e mancate alleanze, ma, parafrasando Vasco, «loro sono ancora qua». A differenza di Sc e Fid, i pentastellati si allenavano sul territorio da alcuni anni, rodandosi con amministrative e regionali prima di sperimentare la corsa romana. Agli atti svettano i banchetti in giro per l’Italia e la presenza web, ma soprattutto la costante filodiffusione intonata da Beppe Grillo, mosca bianca che macina sold out in piazza parlando di politica.
Oggi il Movimento continua a farsi le ossa a Palazzo, dà battaglia in commissione e alza la voce in aula, non senza difficoltà. Il pettine fatica a sciogliere i nodi irrisolti della leadership a trazione Grillo-Casaleggio. Nelle ultime ore i due hanno rimandato per l’ennesima volta l’appuntamento chiarificatore con i propri parlamentari a Roma. Restano poi le incertezze su contenuti e linea politica nell’eterno dibattito tra pasdaran e dialoganti. E se i Meetup reclamano più potere decisionale interrogandosi sulla latitanza della piattaforma web per la democrazia diretta, nei forum stellati sono già scattate le discussioni su chi e come dovrà candidarsi in vista delle Europee.
Sbarcare in forze all’Europarlamento vorrebbe dire uscire dai confini nazionali e ricavare uno spazio in più rispetto a quello di Camera e Senato dove spesso le iniziative dei Cinque Stelle restano all’angolo per mancanza di voti. Nel frattempo Grillo ha prenotato la sua Genova per il terzo V-Day in data primo dicembre, occasione d’oro per ricompattare le truppe e scaldarle per la campagna elettorale permanente, catalizzando l’attenzione dei media che nei due precedenti appuntamenti pensarono bene di non presentarsi. Da Genova a Bruxelles la maratona è lunga e parte con un pensiero a chi non ce l’ha fatta: alle comparse Monti e Giannino che oggi cedono all’ex comico il ruolo di attore protagonista. Di enfant prodige ne é rimasto soltanto uno.
Twitter: @MarcoFattorini