Il problema di Eni si chiama Saipem

I conti in picchiata dei big petroliferi

«Se devo pensare al mio futuro in quest’azienda, mi sento come un dinosauro: sono prossimo all’estinzione». A parlare è un manager di lungo corso di una compagnia petrolifera tra le maggiori al mondo, in procinto di lasciare il suo posto per entrare in una società di consulenza. «Fino ad alcuni anni fa», continua in manager, «le compagnie petrolifere sviluppavano attività industriale di alto livello. Adesso sembra essere stato tutto esternalizzato. Siamo come holding finanziarie. Per questo siamo in crisi». Il riferimento è alla pesante ondata di ribassi che ha colpito i profitti delle “international oil companies” nell’ultimo trimestre.

Exxon, la più grande del mondo, nel trimestre conclusosi lo scorso agosto aveva fatto segnare un -57% nei profitti rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo trimestre la diminuzione rispetto al 2012 è stata del 18 per cento. Shell è andata sotto le aspettative degli analisti, che si attendevano utili tra i 4,9 e i 5,1 miliardi di dollari, mentre il risultato è stato di 4,5. La francese Total ha visto i propri utili scendere del 19 per cento. Eni è tra le peggiori del listino petrolifero, con un profitto in caduta libera a -29 per cento.

In quello che potrebbe sembrare un gruppo unito dal medesimo destino ribassista, s’individuano però traiettorie assai diverse di caduta. Il problema principale che ha riguardato Exxon, Shell e Total è stato quello dei “margini di raffinazione”. A causa della crisi economica europea, la domanda di prodotti è diminuita, e le aziende “integrate verticalmente” devono pagare lo scotto di capacità di raffinazione in eccesso. Come prova della situazione si può citare la condizione relativamente positiva in cui versa ConocoPhillips, che da un apio d’anni ha inaugurato un’azione massiccia di dismissione di asset nella raffinazione.

Aveva visto bene Christopher Helman dalle pagine di Forbes l’anno scorso: «lo split di ConocoPhillips è ampiamente interpretato come un’azione dei tipi dell’upstream per disfarsi degli asset downstream a bassa profittabilità». È così che Conoco riesce ancora a trarre profitto da una situazione petrolifera con un barile certamente in ribasso (Brent e WTI hanno perso una quindicina di dollare da un paio di mesi a questa parte) ma comunque ancora sufficientemente alto da garantire profitti per chi è stato in grado di comprendere in tempo cosa sarebbe successo nella raffinazione.

Eni sembra essere in una condizione diversa. Oltre ai problemi nella raffinazione – che sembrerebbero però essere una questione storica e ampiamente prevista dagli analisti – si aggiungono incognite politiche e legali. Eni deve parte del proprio successo internazionale alla capacità di sapersi inserire in contesti-Paese tra i più difficili al mondo, spesso inavvicinabili per le aziende anglosassoni. Le pulsioni estremiste degli ultimi quattro anni hanno causato però difficoltà operative in Paesi chiave come Nigeria, Libia, Egitto, Mozambico. Eni è stata costretta per la seconda volta nel 2013 a vedere al ribasso le stime per la produzione, arrivando a un totale che sarà inferiore rispetto al 2012.

C’è poi la questione Saipem che aggiunge difficoltà al quadro finanziario di Eni, che nella compagnia di drilling e costruzione ha una partecipazione del 43%. Saipem è stata coinvolta in casi di corruzione che sembrerebbero aver colpito la capacità di reperire nuove commesse, con utili in discesa del 39% rispetto al 2012. Paolo Scaroni, ceo di Eni, ha annunciato un piano di buyback di azioni. Certo è che per risollevare la compagnia l’operazione finanziaria potrà essere solo una soluzione temporanea, nella fiducia che l’azienda sappia riorganizzare i propri processi internazionali più in generale.