Compagni, addio. Era difficile immaginare un risveglio tanto duro. Eppure la mattina dopo la primarie Pd, a poche ore dalla clamorosa vittoria di Matteo Renzi, un risultato su tutti balza agli occhi. L’apparato del partito è stato spazzato via. Neppure l’odiato termine rottamazione rende bene l’idea. Sfiorando il 70 per cento delle preferenze, il sindaco di Firenze ha conquistato un milione e seicentomila voti. Quattro volte quelli di Gianni Cuperlo, generoso ma inadatto esponente della nomenklatura. E manca poco persino alla beffa. Il candidato scelto dai Massimo D’Alema e i Pierluigi Bersani ha quasi pareggiato con l’altro “esterno” Pippo Civati, terzo classificato. A conti fatti, cinque elettori su sei hanno scelto come segretario del Pd un esponente lontano anni luce dal Bottegone.
Renzi vince, la dirigenza perde. Ci sono due aspetti delle primarie che raccontano in maniera persino più impietosa questa verità. Il sindaco rottamatore si impone in maniera più netta nelle regioni rosse: evidentemente la sconfitta dell’apparato non nasce dall’astensionismo dell’elettorato tradizionale. Piuttosto da un suo diverso orientamento. Ma è la posta in palio che rende tutto più significativo. Matteo Renzi non conquista le primarie per la premiership. Non strappa il biglietto per rappresentare il centrosinistra alle elezioni, non ancora almeno. Semmai sbaraglia i suoi avversari nella competizione per loro più importante: diventa segretario del partito che voleva rottamare.
Ecco allora che Gianni Cuperlo non ha davvero nulla da rimproverarsi. Il suo 18 per cento è un risultato difficile da mandare giù, di gran lunga sotto le aspettative. Ma la bocciatura del popolo democrat non lo riguarda troppo direttamente. Con classe, l’ex dirigente dei giovani comunisti si è assunto immediatamente tutta la responsabilità della débacle. Ma è chiaro che la sfiducia raccolta nelle urne non è rivolta a lui. A perdere le primarie è stato il gruppo dirigente degli ultimi vent’anni. Gli eredi del Pci e del Pds. Quelli che un congresso non l’avevano mai perso, per dirla con le parole di Massimo D’Alema.
Già dalle 15.30 di oggi, quando Renzi presenterà la nuova segreteria del Pd, si potrebbe aprire una nuova epoca. L’apparato che ha avuto in mano le sorti del Pd si fa da parte. Diventa corrente e si scopre minoranza. Dalemiani, bersaniani, i proprietari del glorioso marchio rischiano di essere relegati in un angolo. Sconfitti da Matteo Renzi, uno così lontano da Botteghe oscure da essere stato spesso additato, con disprezzo, “uno di destra”. Per il momento sembra esclusa l’ipotesi di scissione, lo ha confermato Cuperlo ieri sera. Ma già il fatto che si parli di una possibile separazione racconta perfettamente il clima. «Non scenderemo dal treno» ha raccontato ancora Cuperlo nella brutta serata al Tempio di Adriano, dove si erano riuniti i suoi sostenitori. C’è da credergli. Attestati di lealtà al nuovo segretario sono arrivati anche da Bersani, suo avversario di un tempo non lontano. Gli ex dirigenti saranno l’opposizione interna al nuovo segretario. Ameno quelli che non si sono già accodati a Renzi, per paura di scomparire (e non sono pochi).
La sconfitta della nomenklatura passa per il trionfo di Renzi. Ma anche per l’ottimo risultato di Pippo Civati, il candidato monzese troppo spesso considerato una testa calda. Ebbene, forte dei quindici parlamentari che hanno sostenuto la sua mozione, Civati ha conquistato il 14 per cento dei voti. Solo novantamila preferenze meno di Cuperlo, che aveva con sé più di duecento tra deputati e senatori. Un altro segno evidente che tra la classe dirigente e gli elettori del Pd la scollatura sia ormai tanto evidente quanto insostenibile. Compagni, addio. Dal Nazareno a Palazzo Chigi, le primarie di ieri rischiano di archiviare una lunga storia politica. Certo, al Quirinale c’è ancora Giorgio Napolitano. Ma dal premier Enrico Letta al segretario Matteo Renzi, da stamattina il Partito democratico è decisamente più giovane (e un po’ più democristiano).