Nelson. Con un nome così inglese e storico, il lottatore nero Mandela condivide con il lottatore anglo-imperiale Churchill l’immagine di una terza età messa alla prova e vittoriosa. Sono tra i pochi statisti che restano stampati nella memoria mondiale da anziani. Churchill, nel 1940-41, solo contro Hitler, aveva 65 anni. Mandela, liberato dall’ergastolo l’11 febbraio 1990, si ripresentava come uno snodato principe-partigiano di 72 anni che, diversamente dai partigiani dell’Europa antifascista, avrebbe avuto in mano la Storia e un particolarissimo Stato da ricreare col massimo dell’agilità politica. Ce ne voleva, nel pieno di una terza età unica anche a vedersi: Mandela libero, e poi presidente eletto lungo cinque anni trionfali (maggio del 1994-giugno del 1999), mediatici, e colorati in quei costumi africani che solo i neri sanno portare, è stato un vero sportivo della Storia. Gli sportivi veri sanno di poter perdere e poi di vincere, e la pista o la corsa di Nelson Mandela ha avuto scatti e soste molto precise. Che corrispondevano ad alcune tappe del pensiero politico occidentale (con azioni conseguenti) da elaborare di volta in volta.
Mandela è stato un capolavoro di passaggi personali: da avvocato liberale che forniva il gratuito patrocinio a imputati processati senza diritti, a comandante rivoluzionario che si avvicinava al marxismo nell’ala armata dell’African National Congress (l’Umkhonto we Sizwe; «Lancia della nazione»), a detenuto simbolo di un sistema illegale nei suoi principi conclamati, a uomo di Stato, o rifondatore, di un organismo quasi psicotico su cui intervenire senza elettroshock. In termini medici, e politici, bisognava iniettare la democrazia in un corpo abituato a vomitarla. Bisognava farlo con decisione, con grazia, e puntando su una diagnosi base: una maggioranza ha diritto di essere rappresentata come tale, di governare, e di non far piazza pulita degli altri. Anche quest’ultimo è un diritto, oltre che un dovere. L’anziano e scattante Mandela l’ha steso come un mantello su una società finalmente emancipata, nera (o “colorata”), maggioritaria e vittoriosa, e sugli avanzi di uno Stato che aveva pensato di impiccarlo solo qualche decennio prima.
Il Sudafrica razzista per legge (dal 1948), era una sintesi che gridava vendetta, un quadro che uno studioso marxista avrebbe potuto analizzare in vitro con una certa soddisfazione teorica: la lotta per i diritti dell’uomo di una maggioranza segregata con tanto di segnaletica pubblica e di passaporto interno, coincideva con una lotta di classe (classe di colonizzati, sfruttata nelle miniere di diamanti, e recintata nelle township di Johannesburg o Città del Capo), con la sua repressione mortifera (massacri di folla, pestaggi a morte nelle prigioni, processi privi di habeas corpus, condanne a morte), e con una progressiva azione rivoluzionaria (l’ala armata dell’African National Congress pianificava, dai primi anni Sessanta, sabotaggi e atti di guerriglia).
I persecutori bianchi più connotati – boeri (significato originario «contadini») di ascendenza olandese o franco-ugonotta devoti della Chiesa riformata – erano pochi milioni di minoranza con in mano la repubblica e un mazzo di diritti arbitrari: diritto al razzismo di Stato (apartheid, sviluppo separato), diritto al benessere esclusivo, diritto al monopolio della violenza, diritto a un’africanità quasi originaria (erano lì da tre secoli), con tanto di lingua di Stato – l’afrikaans, una propaggine provinciale e più gutturale dell’olandese – obbligatoria erga omnes. Gran parte della carta geografica del Paese era, e in parte è ancora, popolata di nomi e memorie della storia boera: Pretoria (la capitale), Pietermaritzburg, Bloemfontein, Transvaal, Orange. L’altra minoranza bianca – ex inglesi dell’ex Impero – forniva ogni tanto un buon gruppo di oppositori attivi al regime, giornalisti e avvocati, in particolare. Questa Unione Sudafricana progressivamente sanzionata dal mondo e alle Nazioni Unite si scioglieva per necrosi lasciando a Mandela settantaduenne la patata bollente di un «che fare?» complicato.
Ma lui ha avuto la sorte di trionfare nei tempi in cui la Storia scattava veloce: cadeva il muro, e poi la compagine sovietica (dopo 74 anni: una terza età diversa, questa, estenuata), scoppiava la guerra del Golfo, scoppiava la Jugoslavia, mentre in America si vendeva, come un’evidenza ineluttabile, il principio della «fine della Storia». Nella sua azione parallela, il vecchio Mandela ha avuto un’idea diversa: la Storia procede spesso per stratificazioni di ingiustizie e di cataclismi umani, gli Stati possono rinascere anche da queste cose. Ma non ci si ferma. Il nuovo Sudafrica è venuto fuori anche dalla sintesi avveduta di un ex combattente marxista del Sud del mondo e di un maturo pensatore politico occidentale. Che, oltre a tutto, da ex detenuto, non è diventato un personaggio letterario. Diversamente dal conte di Montecristo (libero perché evaso), il vecchio Mandela non si è vendicato.