Venerdì 24 gennaio il Consiglio dei ministri ha varato l’inizio del piano-privatizzazioni annunciato ai mercati da Letta e Saccomanni nell’ultimo trimestre. Si comincia con la cessione del 40% di Poste, e fino al 49% di Enav. A giudizio dei più, considerando quel che si è letto e detto sui media in queste settimane, è un fatto molto positivo, un primo cambio di passo nell’operatività di un governo trascinato nella polvere da 9 mesi di strazio sulla vicenda Imu. Chi qui scrive la pensa diversamente, e torna ai spiegarne il perché. Senza nascondere gli aspetti positivi, quando ci sono e per quelli che sono.
Innanzitutto, queste “non” sono privatizzazioni. Lo ricorda anche Massimo Riva su Repubblica, anche se dal suo punto di vista non è detto che sia un male. Privatizzare significa cedere il controllo proprietario. Il governo ha deciso di procedere mantenendo il controllo delle società il cui capitale “apre” ai privati, nel caso di Poste quotandola, nel caso di Enav vedremo se aprendo a fondi d’investimento o soggetti specializzati nel settore aereo. Lo Stato non “cede” un bel nulla, ma chiede capitale a privati che non comanderanno né gestiranno.
Come aspetto positivo, c’è senza dubbio il fatto che l’ingresso in elevata quota del capitale di privati aumenta la disciplina finanziaria e l’efficienza. Tuttavia un’enorme letteratura consolidata nel tempo attesta che i benefici veri si ottengono nei casi in cui si privatizza, non quando si chiede capitale privato ma si continua a gestire. Quando è lo Stato a nominare i manager, ed è lo Stato italiano in mano ai partiti, decenni di esperienza italiana dovrebbero averci stradimostrato a sufficienza i mali che si ingenerano e perpetuano. Il governo attuale dovrà nominarne un centinaio tra poche settimane, a Eni, Enel, Finmeccanica e anche alle Poste. Di Sarmi, il capoazienda postale, Repubblica scrive che “vanta un grosso credito verso l’attuale esecutivo, dopo l’investimento nel salvataggio Alitalia può aspirare a qualsiasi carica”. Ecco, è esattamente la ragione per cui in Italia bisognerebbe applicare radicalmente quel che diceva Lady Thatcher: in uno Stato in cui di mercato ce n’è poco e prevalgono altre logiche, per creare il mercato va rimosso lo Stato dal mercato proprietario. Sante parole, ma da noi lo Stato cioè i partiti mutano i panni, non dismettono il comando.
Tra parentesi: le privatizzazioni societarie non servono ad abbattere il debito pubblico. A quel fine sarebbe utile smobilizzare l’enorme patrimonio immobiliare pubblico: quello dismissibile vale oltre 300 miliardi di euro, ma lo Stato non lo fa. Cedere asset mobiliari significa invece aumentare l’efficienza economica delle società e la trasparenza delle loro strutture di governance, accrescere la concorrenza nel mercato e per il mercato, innalzare l’efficienza e la redditività del mercato finanziario in quanto tale.
Tuttavia è anche vero che quando lo Stato controlla il 100%, come avveniva sin qui per Poste e per Enav, bisogna pur cominciare e non è detto che se non si cede il controllo alla prima apertura del capitale a privati, non lo si faccia poi successivamente. Il ministro Saccomanni ieri ha detto che per poste “si comincia” col 40%. Diamogliene atto, e vedremo se il tempo confermerà che poi si procede o darà ragione a chi, come me, ne dubita molto. In realtà, occorrerebbe un mutamento politico degli indirizzi del paese. Oggi, semplicemente, non è alle viste. La destra non ha privatizzato nulla, con Berlusconi.
Capisco che il lettore a questo punto obietterà. Ma che dici, non ti è bastato l’esempio delle tante privatizzazioni – l’Italia ne ha fatte per 157 miliardi di euro tra metà anni ’80 e il 2012 – che si sono rivelate deludenti, con gestioni come quella di Alitalia o di Telecom? Ottima osservazione. Che infatti spiega i dubbi – non solo miei, accademici come Ugo Arrigo e Nicola Rossi, l’Istituto Bruno Leoni, alcuni parlamentari come Linda Lanzillotta – sulle operazioni decise.
Che cosa dimostra, l’esperienza alle nostre spalle? Che bisogna distinguere la natura di ciò che si cede, prima di aprirne il capitale o di affidarne la gestione a privati. Quando si tratta di società che operano in regime di monopolio dichiarato o mascherato, quando godono di un regime di vantaggio normativo o regolamentare, quando beneficiano di sussidi pubblici in ragione della propria pretesa mission o a sostegno del proprio conto economico o patrimoniale, allora prima di privatizzare bisogna fare un’altra cosa. Si deve “liberalizzare”: sciogliere e risolvere la tutela pubblica di cui quella società ha goduto, eliminarne i sussidi diretti o incrociati. Altrimenti, la privatizzazione si riduce in un trasferimento a privati di una rendita. È quello che è avvenuto concedendo all’Alitalia “privata” sostegni e ammortizzatori negati ad altre imprese, ed eccezioni alla concorrenza su tratte come la Milano-Roma. È quello che continua a succedere coi concessionari autostradali, finché la formula con cui il ministero calcola gli aumenti di tariffa resterà – chissà perché, ma è così – segreta invece che pubblica, e col risultato che a ogni spirar di vento i politici di turno intervengono discrezionalmente sulle tariffe oppure, come Lupi oggi, promettono “sconti” ai pendolari (apparentemente ragionevole, in realtà insensato).
Ecco, è esattamente questo l’errore commesso decidendo di quotare Poste così com’è oggi: cioè un enorme conglomerato di attività diverse, purtroppo fortissimamente caratterizzato da aree di tutela normativa, sussidi diretti e sussidi incrociati. Prima bisognava liberalizzare: sarebbe stato un percorso più lungo, ma più efficace. Collocare in Borsa“Poste così com’è” è sbagliato, per 4 ragioni.
Primo. Poste oggi è una somma di attività diverse, fino alla telefonia, il trasporto aereo, la telematizzazione della PA, ma il più del suo fatturato e tutti i margini vengono dalle attività finanziarie, la raccolta di BancoPoste e quella di PosteVita. Dal servizio postale, vengono solo 4,6 miliardi di fatturato su 24, nel 2012. Tutti i maggiori collocamenti sul mercato di aziende postali europee, nei decenni alle spalle, sono avvenuti separando le attività, nei casi in cui all’origine – come quello di Deutsche Post – alle consegne postali si si sommavano attività di raccolta del risparmio e assicurative. PostBank venne separata da Deutsche Post e ceduta integralmente alla banca privata Deutsche Bank. Royal Mail, appena collocata sul mercato con enorme successo a Londra, non aveva attività di questo tipo.
Secondo. Il motivo per cui occorreva separare è che sin qui rete postale e attività finanziarie hanno vissuto di sussidi incrociati, ritardando la liberalizzazione postale da una parte – vedi gli innumerevoli richiami negli anni venuti dall’Autorità Antitrust, anche quando a presiederla era Catricalà oggi al governo, e che sembra essersene dimenticato – e impedendo a BancoPosta la piena licenza bancaria: per evitare l’insurrezione del sistema bancario italiano privato da una parte, e una ovvia infrazione europea dall’altra. E’ grazie al redditivo pilastro finanziario, che Poste Italiane non si è incamminata sulla via di diventare un vero grande operatore logistico italiano e internazionale, come hanno fatto le consorelle tedesca e olandese, con Dhl e Tnt. Ma quotando tutto insieme l’errore si eterna e l’elevato rischio dell’infrazione non si evita.
Terzo. A maggior ragione la separazione degli asset andava fatta perché sin qui Poste ha ottenuto quasi un miliardo di euro l’anno dallo Stato a sostegno della sua gestione previdenziale, assai pingue nei trattamenti garantiti in passato. Royal Mail era in condizioni analoghe ma ha dovuto risolvere il problema prima di quotarsi, su intimazione europea, e a maggior ragione l’infrazione europea scatterà se Poste viene quotata senza risolvere il problema che ha in pancia.
Quarto. Societarizzare i diversi business di Poste come premessa per la quotazione – sin qui Banco Posta è solo contabilmente distinto dai servizi postali – non avrebbe affatto diminuito il valore complessivo dell’azienda. Al contrario avrebbe fatto emergere valore, e ne avrebbe dato uno autonomo alla rete territoriale postale – la più diffusa in Italia, con 13.600 agenzie – come piattaforma multiservizi.
Al contrario, quotare il 40% com’è oggi per incassare 4 miliardi in pochi mesi, crea le premesse per enormi conflitti d’interesse, su cui giocoforza i concorrenti domestici e continentali attiveranno le istituzioni europee. Per alzare più soldi nel breve, il governo fa passare il contratto di Poste con Cdp – a cui va la raccolta postale per gli impieghi istituzionali della cassa – da annuale a triennale o quinquennale, per alzare il valore della conglomerata. Ma quel contratto non è nient’altro che la piena garanzia pubblica sulla raccolta di Poste, piena garanzia pubblica che è negata agli intermediari privati concorrenti, finanziari e assicurativi.
Non stupisce, che il governo abbia deciso di riservare al mercato un 30% del capitale, e di “regalarne” – vedremo se sarà così, il comunicato di ieri è vago – un 10% ai 145 mila dipendenti. È un’idea buona la partecipazione dei dipendenti al capitale, ma nel più dei casi in cui è avvenuta l’attribuzione delle azioni è avvenuta a sconto del prezzo riservato al mercato, non gratis. Se fosse un regalo servirebbe invece a tacitare i dubbi sindacali, a “comprare” consenso.
Su tutti questi temi, il parlamento – nelle procedure previste dallenorme sulle privatizzazioni – dovrebbe alzare una voce. Sono critiche devastanti? No, sono quelle dettate dagli errori commessi in passato.
Bisogna tuttavia riconoscere che nel caso dell’Enav il governo è più coraggioso. Le privatizzazioni vere nel mondo delle società che gestiscono l’assistenza al volo sono poche, naturalmente eccezion fatta per quella sotto Reagan in America e quella in Gran Bretagna sotto la Thatcher.. Nel caso dell’Enav, rimesso in ordine dal commissario e e poi amministratore unico Massimo Garbini, un 49% privato ne rafforzerà la proiezione internazionale già iniziata con la gara vinta a Dubai e a Kuala Lumpur e acquisendo una quota di Aireon negli Usa.
Ma su Poste lo Stato tiene troppo ai 360 miliardi di raccolta delle Poste per la sua Cassa Depositi e Prestiti. Magari perché questa poi ripubblicizzi aziende private per intero o a pezzi, come già ha fatto e sta facendo.