Tonon. Posso dire, senza che ne consegua per me qualche particolare merito, di essere stato tra i primi ad aver visto – sentito – che ne Il nemico , il suo romanzo d’esordio, si parlava una lingua diversa. Una lingua in qualche modo atavica che prosciugava la palude semantica dell’italiano da quasi tutti i vezzi, alla ricerca di una purezza sintetica e sintattica adatta a far emergere, sgorgare, l’impuro folle che abita in fondo alle viscere dell’uomo. Era un libro imperfetto, ma, soprattutto nella prima parte, le budella le faceva torcere davvero. Spudorato come solo i pudichi, rigoroso come solo i maniacali, ascetico come solo i rovistatori di carni. Spalancammo gli occhi davanti a un oggetto-parola che tentava una riverginata epica partendo dalla miseria e costeggiando, in stretto vico, mistica e deiezione. Che, si sa, l’epica in questa lingua, in questo paese spiaccicato che non possiede orizzonte, è materia scabrosa. Rari i tentatori, ancor meno i tangitori di tali immemori profondità. Con buona pace di chi, ciclicamente, stende manifesti e rivendica movimenti.
La parola, poi, che Tonon seppe pronunciare, in tutta la sua madornale vastità, è “amore”. Pronunciarla con una tale innocenza che forse, in anni recenti, solo Moresco, a cui il nostro è cucito per più di un filo. Scriveva di sé, Tonon. Uomo dalla biografia scontrosa da cui ha attinto per riflettere sulla violenza delle cose. Anche il suo secondo, urlato e urgente romanzo (ma in entrambi i casi la definizione è difettosa), La luce prima, nasce da sé, da un lutto privato insostenibile e insostenuto, in cui quella scrittura carnosa e scarnificata è messa alla prova dell’io senza rimedio. Sono stati e saranno molti i discorsi sul filtro letterario, sulle capacità di trasfigurazione e interscambio tra esperienza e arte. Non è questo il luogo in cui aprire tale voraginosa parentesi.
Quelle pagine (ricordo le lessi in aereo durante un volo a dir poco burrascoso) emanavano un dolore così forte da non poterlo non solo discutere, ma nemmeno assimilare. La spudoratezza, quasi la tracotanza con cui l’autore l’ha esposto (come si esponevano i figli illegittimi, non come si espone un quadro) ne provocavano l’autocombustione. Rimaneva lo sconcerto, ma la lingua – lì, in quel rogo – non riproduceva che se stessa e, paradossalmente, tanto più vita c’era in quella estroflessione della morte, tanto più muta riusciva la comunicazione. Ne seguirono, in me, lente riflessioni, un grande silenzio e una sorda aspettativa al varco.
Tonon ricompare ora, qualche mese fa, con I circuiti celesti (66thand2nd, 2013), un libro strano. La prima osservazione, di copertina, è che stavolta il centro è spostato dal sé all’altrove. C’è un soggetto. Non una trama. Un soggetto, un uomo prima vivo e poi morto, presto, secondo i canoni dell’attualità. Un uomo, un ragazzo pubblico. Insomma, una biografia, forse l’ultima cosa che ti aspetti dagli ego ingombranti.
Della morte di Marco Simoncelli tutti sanno tutto, ovvero niente. Nel mondo odierno è impossibile proteggersi dalle informazioni, quanto è sempre più impervio sapere una qualunque cosa. Anche chi come me aborre la velocità, e quindi mantiene un certo distacco dai motori in genere, non ha potuto evitare di soffermarsi sull’istante (perché è solo un istante) in cui quel ragazzo corazzato è passato dal movimento alla stasi. Dicono spesso che in questo paese ci si sente parte di qualcosa solo quando l’Italia non fa troppo schifo ai mondiali. Secondo me qui (e qui ormai vuol dire tutto) ci si sente qualcosa solo quando si vede qualcuno che crepa. La potenza simbolica della morte è ormai una delle poche a sorgere effetti collettivi, se non di massa. Una potenza che non sfugge a Tonon, che su quel simbolo si cauterizza. Il suo “dovere” biografico lo fa. Racconta la storia di quello che c’è stato attorno a quel ragazzo e abbozza, con empatia, un’ipotesi del suo dentro. Ci mette qualche patetismo di troppo, a mio gusto, ma il risultato è senza dubbio qualcosa di vivente. E poi, complice quella stessa lingua carica e sottratta, sembra mettere ferita su ferita, sangue su sangue, specchiando il suo essere terrigno con quello del centauro ormai, fin dal titolo, assoldato tra gli angeli. Una strana coppia per un libro che provoca reazioni opposte. Ora di aderenza, ora di distacco. La prosa guerriera che tenta di maneggiare uno scricciolo con una delicatezza che non può appartenergli. Ma anche l’assoluta generosità dello slancio.
Leggo proprio ora che qualcuno lo vorrebbe allo Strega. Cose che riguardano la potestas temporale dell’editoria, più che la letteratura. Dal punto di vista spirituale, mi felicito di questa battaglia. Ma il vero difficile secondo libro di Tonon, credo sia ancora scritto nell’inferno dell’attesa.