Dietro iPhone? Ci lavorano 30 aziende (oltre ad Apple)

Dentro lo smartphone di Apple

Ci vogliono trenta aziende sparse in tre continenti per fare un cellulare che pesa 112 grammi e sta nel palmo di una mano. Dentro e fuori l’iPhone – 51 milioni di pezzi venduti nel primo quarto fiscale del 2014, un record per il periodo, ma gli analisti di Wall Street si aspettavano di più – c’è la firma di Steve Jobs e il lavoro di decine di migliaia di anonimi. Non solo operai cinesi, ma anche specialisti inglesi del Bluetooth o esperti tedeschi di touchscreen. I pezzi viaggiano per migliaia di chilometri prima di ricomporre lo smartphone conosciuto come Melafonino: un’inespugnabilie cassaforte di alluminio e acciaio inossidabile lunga dodici centimetri e larga sei.

La scocca dell’iPhone arriva da Taiwan. La produce la Catcher Technology, azienda leader nella lavorazione dei metalli liquidi che fornisce ad Apple anche la custodia dell’iPad. Non che Cupertino sia l’unico cliente: secondo indiscrezioni, la Catcher starebbe lavorando da dicembre all’intelaiatura del Galaxy S5, annunciato come il maggior concorrente dell’iPhone sul mercato. Nasce a Taiwan anche il bianco caricabatterie Apple, firmato Delta Electronics, mentre alla batteria vera e propria (al litio) pensa la Amperex Technology, sede centrale di Hong Kong.

Sono di origine asiatica quasi tutti gli organi vitali dello smartphone. Il display viene realizzato grazie alla collaborazione dei tre giganti giapponesi dei cristalli liquidi: Sharp (la stessa dei frigoriferi), Sanyo Epson e Toshiba, che recentemente ha fatto acquisti proprio nella Silicon Valley. La scheda wireless è un brevetto della Murata, 37mila dipendenti e sede ancora a Tokyo. Il driver di memoria flash viene prodotto in serie da un’azienda coreana specializzata in chip e semiconduttori, la Hynix. Non mancano infine i colossi della tecnologia dell’est, Sony e Samsung. Il primo si occupa della fotocamera, il secondo della scheda video e della memoria Ram.

Trovare un po’ di Europa nell’iPhone significa prendere in esame il touchscreen e il Bluetooth. Lo schermo in grado di recepire più impulsi tattili contemporaneamente l’ha inventato una ditta tedesca, Balda AG, fondata nel 1908 per produrre macchine fotografiche. Il modulo Bluetooth dell’iPhone invece è stato ideato nel cuore del Regno Unito. A Cambridge, quartier generale della Silicon Radio.

Asia e Vecchio Continente, finora. E gli Stati Uniti? La Silicon Valley aggiunge alcuni elementi di raffinatezza. Il chip per la connessione senza fili, ad esempio, l’ha disegnato un’azienda californiana di nome Marvell. Sempre californiana è Broadcom, che ha creato il circuito integrato per interpretare il movimento delle dita sullo schermo.

«Componenti? Componenti americani, componenti russi… Tutti fatti a Taiwan!», dice un personaggio del film Armageddon. E in effetti né Marvell né Broadcom realizzano in patria i loro brevetti. Nemmeno Balda AG e Cambridge Silicon Radio. I disegni delle aziende diventano realtà nello Stato a nord delle Filippine grazie a due compagnie rivali: la Taiwan Semiconductor Manufacturing e la United Microelectronic Corp.

Ma questo spacchettamento della produzione in tutto il mondo è necessariamente un male per i Paesi in cui hanno sede le aziende? La risposta non è semplice. «L’industria di molti paesi avanzati come Germania, Regno Unito e Stati Uniti non cresce più perché la produzione è spostata nei paesi emergenti», spiega Giacomo Vaciago, docente di Politica economica alla Cattolica di Milano. Proprio nel settore dell’elettronica si realizza al massimo grado quella che gli esperti chiamano “specializzazione verticale” del lavoro: svariate aziende che, come nel caso dell’iPhone, hanno un alto grado di autonomia all’interno di un progetto comune. Il passo successivo è lo spostamento a Taiwan della produzione, ossia la “delocalizzazione della filiera produttiva”. Un fenomeno che, secondo Vaciago, potrebbe avere due effetti opposti. Da una parte, andare a svantaggio dell’industria degli Stati Uniti e delle più solide economie europee. Dall’altra, fare emergere i talenti specifici dei singoli Paesi, che si concentrano su ciò che sanno fare meglio.

«È difficile dire se la delocalizzazione e la sua distribuzione su paesi diversi freni la crescita di un Paese», ammette Vaciago. «Ma ha di certo favorito la crescita dei Paesi che si sono specializzati in modo congruo con i loro vantaggi comparati: gli Stati Uniti, nella misura in cui è nelle loro università e nei loro laboratori che l’innovazione ha origine, e la Cina, nella misura in cui è là che si assembla il tutto».

Due cose, non a caso, bastano a caratterizzare lo smartphone di Steve Jobs, e a quelle pensa Apple e solo Apple, in California. Il software IOS, cioè il cervello del Melafonino. E naturalmente il suo design. A mettere insieme i vari componenti sono gli operai cinesi, negli stabilimenti della Foxconn. «La Cina è un paese molto integrato con tutte le filiere commerciali proprio perché ha la prerogativa delle operazioni di assemblaggio», puntualizza Vaciago.

L’iPhone, comunque, non è l’unico simbolo della tendenza commerciale a scomporre e costruire il prodotto lontano dal suo luogo di nascita. Un altro esempio è il mercato dell’automobile, dove però per l’economista l’effetto-freno dell’economia non si verifica. «Nel 2014 l’Audi produrrà più vetture all’estero che in Germania – sostiene Vaciago – Un dato che ci permette di capire come i confini nazionali abbiano sempre meno rilievo, come ottica con cui produrre statistiche. Quando avremo il dato della produzione industriale di imprese tedesche ovunque esse siano, vedremo che non è vero che la Germania cresce poco. Cresce ovunque… E molto».

Twitter: @maffei_lucia

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