Salva-Roma? La Capitale non diventi la grande mantenuta

Sprechi & Enti locali

E due. Riappare l’ombra del default sui colli fatali di Roma. Cadde a fine dicembre sotto il veto del Quirinale il Mille-proroghe, che conteneva anche le misure salva-Roma. È caduto mercoledì 26 anche il decreto enti locali, in cui le stesse misure erano riproposte. L’ostruzionismo di Lega e Cinque Stelle poneva al governo come unica via porre la fiducia, poiché il decreto scadeva il 28 febbraio. E giustamente Renzi non ha voluto iniziare la vita parlamentare del suo governo con un atto imperativo. Le misure verranno ripresentate venerdì, ferve con il Quirinale il confronto riservato se farlo con un nuovo decreto o no, e se con una sola misura o diverse, visto che anche questo decreto conteneva norme eterogenee, per esempio il rinvio a luglio della web tax.

La polemica è subito diventata rovente. Il sindaco Marino è uscito mercoledì dall’incontro a Palazzo Chigi contrariato, annunciando che non intende fare il commissario fallimentare. Poi ha aggiunto parole inqualificabili: ha invocato i forconi, ha detto che sospenderà bus e raccolta rifiuti. Non so a voi, ma a me parole simili da parte di un sindaco della Capitale che bisogna salvare dal suo disastro finanziario per la seconda volta dal 2008, danno letteralmente il voltastomaco. Polemiche di questo tipo non servono a niente, sono solo il frutto di una politica che segue il modello-Masaniello. È invece il caso di riflettere seriamente, sulla voragine finanziaria di Roma. Anche per aiutare il governo a scegliere bene.

Primo. Ovviamente ai più può apparire comprensibile, che si debba fare il possibile per evitare il default della Capitale. Governo e parlamento si trovano oltretutto nella condizione di non poter pianamente applicare a Roma Capitale le norme sul default dei Comuni previste all’articolo 244 del Testo Unico Enti Locali, poiché nel 2008 già fu disposto un altro salvataggio, accollando debito pregresso per 12 miliardi a una gestione commissariale. Quel che al governo tocca evitare, però, è che si continui con interventi discrezionali che lanciano segnali sbagliati.

Secondo. Non è un caso, per esempio, che il sindaco di Napoli De Magistris, dopo il salva Roma congegnato nell’autunno scorso a fronte degli aggiuntivi 800 milioni di debiti emersi, chieda esattamente la stessa cosa per Napoli, e per oltre un miliardo. La Corte dei conti ha bocciato il suo piano di rientro, dunque anche Napoli è oggi in condizione di default. Ma come può, un governo nazionale, salvare Roma sì, Napoli no, mentre nel frattempo nel 2012 Alessandria andava dritta al default senza che si levasse una mosca? Che senso ha, discriminare il rispetto della legge a seconda che i sindaci locali siano più o meno dei Masanielli? A questo punto, a Renzi tocca nel salva-Roma – e nel salva-Napoli che si prevede lo accompagni – disporre comunque delle – speriamo – profonde modifiche, che condizionino gli interventi a energici impulsi ai sindaci affinché intraprendano una strada di risanamento del bilancio ordinario, che resta in entrambi i casi fortemente squilibrato a prescindere dal debito pregresso.

Terzo. Una disciplina uniforme, un sistema premiale e non paradossalmente punitivo per amministrazioni che perseguano l’efficienza economica e l’equilibrio finanziario, non è solo una questione di equità orizzontale, tra città e città. C’è anche un tema di equità verticale. Come il governo è chiamato dall’Europa a una severa disciplina dei suoi conti e ad abbattere il debito, lo stesso deve avvenire spalmando e radicando lo stesso dovere nelle Autonomie.

Quarto. Nel caso di Roma, va anche sottolineato che non ha pagato l’atteggiamento parlamentare del Pd. Aver fatto muro in parlamento contro emendamenti della stessa maggioranza di governo – venivano da Scelta Civica, dalla senatrice Lanzillotta – volti a subordinare gli aiuti a Roma a misure condizionali di razionalizzazione delle piante organiche e a cessione di società controllate e partecipate, ha ottenuto l’effetto “chi troppo vuole nulla stringe”. Stride con la realtà, l’aver voluto preservare a ogni costo l’attuale portafoglio di municipalizzate e il numero troppo elevato di dipendenti.

Quinto. Infatti il punto non è solo che oggi, senza un nuovo salva-Roma che abbuoni 600 milioni degli oltre 800 di debito aggiuntivo, salta il pilastro essenziale su cui il sindaco Marino ha fatto approvare il bilancio 2013, lo scorso 6 dicembre. Un bilancio che dava già per scontato il decreto che manca ancora 3 mesi dopo. In ogni caso, ammoniva la Ragioneria Centrale del Comune nelle previsioni per il 2014, senza una seria razionalizzazione della spesa Roma dovrebbe accrescere vertiginosamente molte delle sue entrate: quasi il doppio rispetto all’incasso 2013 da tassa di soggiorno, 15 volte il canone degli impianti pubblicitari, 3 volte quanto ricavato da accertamenti d’infrazioni. E non per ridurre il deficit che resterebbe per centinaia di milioni, ma solo per fronteggiare i minori trasferimenti ordinari al bilancio di Roma dallo Stato, in discesa dagli oltre 700 milioni del 2013 a circa 450 nel 2014.

Sesto. Roma e il sindaco Marino devono percorrere una via alternativa, a quella di diventare l’amministrazione più tassaiola della plurimillenaria storia di Roma. Al governo spetta tracciare una strada che non sia quella di amministrazioni commissariali parallele a cui addossare debiti miliardari di alcune grandi città sì e altre no, un metodo che ai privati è naturalmente negato dai codici. Ma a Marino e alla sua giunta spetta il dovere di comportarsi come una grande azienda in difficoltà. È ora di finirla con la finanza creativa, e di procedere a una revisione approfondita della spesa, e delle troppe partecipate e controllate pubbliche. Il sindaco si è lamentato dei disservizi dell’Acea, ma l’Atac, con quasi 12 mila dipendenti e un fatturato che sfiora 1,2 miliardi di euro, lo deriva per quasi il 70% dai contributi pubblici, cioè dai contribuenti. Una volta utilizzati tutti i ricavi da biglietti e abbonamenti, bisogna ancora coprire il 55% dei costi per il personale, carburante e tutti gli altri. In 4 anni l’Atac ha perso in termini operativi quasi 700 milioni, nonostante circa 3 miliardi di contributi pubblici. Dall’amministratore delegato dell’Ama, abbiamo appreso l’altroieri che dei 7800 dipendenti anche mille in taluni giorni non si presentano al lavoro. Che incentivo al dovere può venire ai dipendenti, se dall’alto il criterio praticato è quello di salvare senza vincoli all’efficienza?

Settimo. Tutti i sindaci lamentano che criticare è facile. Lo sappiamo. Ma Roma Capitale, di colpo di spugna in colpo di spugna e di tassa in sovrattassa, perde attrattività d’impresa e turistica, scende nelle graduatorie internazionali di vivibilità. Con una pressione fiscale in ulteriore crescita, prima che votare con le mani ogni tot anni, impresa e lavoro votano con i piedi ogni giorno: se ne vanno. Ecco perché, approfittando della caduta bis del salva-Roma, sono da preferirsi due cose. La prima è che il governo magari riduca il salvataggio alla parte che consente di tenere in piedi il bilancio 2013, ma eviti di spalmarne sul 2014 gli effetti, per spingere Marino a cambiare marcia. La seconda è che, a quel punto e a maggior ragione, l’amministrazione Marino a propria volta imbocchi una discontinuità vera e profonda ispirata al rigore di spesa, non solo alle maggiorazioni fiscali. Eviti ai romani di pagare le tasse più alte d’Italia. E di farne pagare in più per Roma a tutti gli italiani. Non solo perché le decime ecclesiastiche e le tasse del Papa-Re appaiono ormai come un sogno da rimpiangere, ai cittadini di Roma. Ma perché gli aiuti a più di lista eternano in Italia l’idea di Roma come “Grande Mantenuta”, un archetipo che non ci piace ma che come si vede ha un fondamento, e che i romani non meritano.

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