#Germanocentrismo, la nuova Europa alla berlinese

Incognite di una egemonia

La foto è tra le più popolari del web: il cancelliere tedesco Angela Merkel in una riunione di gabinetto ha mostrato un pugno nella direzione del ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier. La Germania sta abbandonando la tradizionale timidezza in politica internazionale per ergersi a protagonista della politica europea. Non è solo l’agenda europea a occupare spazio sulla scrivania di Angela Merkel: il cancellierato ha preso posizioni nette in merito allo scandalo Nsa; ha criticato aspramente la politica del presidente russo Vladimir Putin contro la “propaganda omosessuale”; e infine ha guidato il blocco europeo nella reazione contro l’operazione di annessione della Crimea.

Ancor più egregiamente, Angela Merkel ha offuscato completamente il ruolo degli alleati di governo della Cdu: i socialdemocratici, che pur occupano la poltrona del ministero degli Esteri di Frank Walter Steinmeier. Negli ultimi mesi si è realizzato un ulteriore accentramento del potere nelle mani del cancelliere, che gestisce con oculatezza i rapporti all’interno della coalizione – e soprattutto è stata in grado di sfruttare a suo vantaggio le incertezze interne dell’Spd, dilaniato da cordate e cambi di leadership deleteri per la percezione pubblica del partito.

Se la politica estera è riflesso di quella interna, l’autorità tedesca all’estero coincide appieno con la situazione governativa tedesca: al centro del ciclone c’è la calma perfetta. Con l’approssimarsi delle elezioni europee, appare sempre più evidente una differenza tra la corsa elettorale di Berlino e quella del resto del continente. In Francia, Italia e Grecia la frustrazione economica si sfoga con il maggior potere dei movimenti “off”, che si chiamino Beppe Grillo, Marine Le Pen o Alexis Tsipras. In Germania non si cerca la “rottura” con il sistema politico esistente. La moderazione regna. Lo “stile Merkel” riesce a calmare l’elettorato tedesco.

Ci sono state alcune scintille di dissenso: nelle elezioni locali di Berlino del 2011 il “Partito dei Pirati” ha raggiunto un entusiasmante 8,9%, trascinato dall’onda hipster e sottilmente nerd che rende la capitale tedesca così affascinante. Eppure, già nel 2013 alle elezioni per il Bundestag i Pirati a Berlino hanno preso il 3,6%. Votati al disastro elettorale sono stati anche altri partiti troppo distanti dal centro: la sinistra dura e pura (e radical chic) dei “Die Linke” ha perso voti, e i liberali sono usciti dal parlamento. I verdi hanno perso consensi su consensi, e un nuovo partito contro l’euro – Alternative für Deutschland – non è riuscito a superare la soglia di sbarramento per l’accesso al palazzo parlamentare al centro della capitale germanica.

Ci si trova quindi al cospetto di un paradosso politico: la Germania rimane poco popolare nel continente, ma riesce a esprimere un “primato morale” a livello internazionale che dovrebbe rappresentare tutta l’Europa. La Merkel non si è presentata a Sochi, e la Germania si è mossa per prima in merito all’idea di escludere la Russia dal G8. Sta poi lavorando per radunare consenso e applicare sanzioni commerciali nei confronti di Mosca – per quanto Putin si sia affrettato a dichiarare che le misure sarebbero “ridicole”.

La mossa in arrivo da parte del cancelliere è già stabilita: la creazione di un «patto di partenariato» tra Ucraina ed Unione europea, che nelle parole del portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, sarebbe un «importante segnale di sostegno all’Ucraina e un chiaro segnale alla Russia».

È chiaro che, come in qualsiasi concetto di politica estera che si rispetti, l’interesse principale è pur sempre quello tedesco. In questo senso, la Germania non ha mai rinunciato alla candidatura come membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (al posto dell’Unione Europea, come vorrebbe l’Italia). Per alcuni aspetti è meglio: il sistema diplomatico europeo è privo di reale sostanza, mancando soprattutto del necessario elemento di cooperazione militare. Non che sia colpa solo della Germania: a sparigliare per prima è stata la Francia, con gli affrettati – quanto non privi di un certo merito – interventi in Libia e Mali. Ma la Germania non si è fatta sfuggire l’occasione: ha inviato contingenti nel Paese africano e in Senegal, ad aggregarsi all’agenda di Parigi e a farla propria per il proprio sistema politico internazionale.

Si potranno incontrare diversi limiti in questo disegno. Il primo e più evidente riguarda proprio i rapporti con l’elettorato di altri Paesi europei. Nella logica tedesca, socialmente razionale e gerarchica, i cittadini votano basandosi sulla logica dell’interesse e della convenienza. È il sistema in base al quale funzionano le elezioni tedesche: in Germania c’è estremo rispetto per le promesse elettorali, in base alle quali vengono strettamente valutati i rappresentanti eletti. Inoltre Angela Merkel non è mai stata capace di “emozionare”, anche perché non è ciò che l’elettore tedesco cerca. Il cancelliere garantisce stabilità ed equilibrio.

Si è portati a pensare che gli altri la pensino come noi – e ciò vale anche per i popoli. I tedeschi si aspettano una vittoria dei partiti moderati e razionali nel meridione del continente. Ma che succederà se in Francia, Italia, Grecia e Spagna dovessero prendere piede i movimenti di “rottura”? Non si dimentichi che gran parte del successo tedesco contemporaneo è stato dovuto all’espansione delle esportazioni verso i mercati in crescita (i Bric: Brasile, Russia, India e Cina), ma che gli stessi mercati stanno rallentando. Nel 2013, su 1.093 miliardi di esportazioni, 624 hanno preso la via dell’Unione Europea, e in particolare 402 quella dell’eurozona. Una crisi politica, che dovesse diventare una crisi economica, metterebbe in difficoltà tutto il sistema. La “scommessa tedesca” di saltare il fosso verso l’Asia e il Sud America si potrebbe scontrare con le difficoltà dei Bric.

È anche per questo che si sono intensificati i rapporti con gli Stati Uniti. La crescita dei mercati emergenti è dovuta in larga misura all’erogazione di dollari facili da parte della Fed, e Angela Merkel ha reso chiaro al presidente americano Barack Obama che una politica fiscale statunitense troppo restrittiva potrebbe far crollare la prima tessera di un domino, che collimerebbe con il crollo europeo. La Germania è così l’ago della bilancia, e gestisce questo potere con sopraffina accortezza. In una certa misura, riesce a colmare un vuoto: ai tempi del brutale intervento russo in Cecenia nel 1999, mancò completamente una vera voce europea pronta ad opporsi a Putin – allora presidente reggente al posto dell’invalidato Eltsin. Bill Clinton oppose qualche timida critica, ma nulla più. È altri rispetto a un leader europeo come Angela Merkel, in grado di conversare con Putin in russo e di definire l’azione in Crimea “illegale”.

C’è poi un limite personale: fino a che punto sarà in grado Angela Merkel di resistere al potere? Si rischia cioè la “sindrome di Margaret Thatcher, che all’ultimo mandato era così convinta della propria persona, da inaugurare le riunioni governative con letture di passi del Vangelo. A parte tali particolari estetici, il premier britannico aveva iniziato a denunciare un certo tipo di dogmatismo soprattutto in merito alla politica europea, che le aveva inimicato parte della base del partito – da qui la sua fine.

Succederà anche ad Angela Merkel? Per ora, sembrano non esistere avversari plausibili alla sua regola, dentro e fuori dal partito. Da qui, la posizione della Germania – e di conseguenza dell’Europa – all’estero rimarrà stabile. Occorrerà adeguarsi a un fatto: in politica estera l’Europa è rappresentata dalla Germania, ma la Germania non rappresenta l’Europa. Con questa consapevolezza, Berlino dovrebbe interrogarsi sulla volontà e il dovere di proporre un vero patto all’Europa, che non sia solo nell’interesse tedesco.

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