La ripresa sta arrivando o sono semplici rimbalzi statistici, dopo anni di discesa degli indici, quelli che stanno interessando l’economia italiana? La domanda è inevitabile, di fronte ai segnali positivi che registrano gli istituti di ricerca. L’indice Pmi manifatturiero registrato da Markit Adaci ha confermato a febbraio «la recente e forte crescita osservata dalle imprese manifatturiere italiane». Nel mese passato, secondo l’istituto di ricerca, «per il nono mese consecutivo aumentano i livelli della produzione presso le aziende manifatturiere italiane» e, «estendendo l’attuale periodo di crescita
a otto mesi, aumentano i livelli di nuovi ordini ricevuti, nonostante sia diminuito dal recente record di dicembre». Essendo un indice ricavato pesando le aspettative dei direttori acquisti di 400 aziende riguardo a produzione, ordini, tempi di consegna e giacenze, è ritenuto un indicatore affidabile sulle prospettive di ripresa nel breve termine.
Si sono poi aggiunti i dati dell’Istat. Sono stati positivi quelli sugli ordini e sulla produzione, che a gennaio ha segnato un incoraggiante +1 per cento. Sicuramente meno entusiasmante è stato il dato sul Pil, positivo ma solo per un minimo 0,1% nell’ultimo trimestre rispetto a quello precedente. È stato soprattutto un segnale simbolico, perché è stata la certificazione della fine della recessione. Di fronte a una crescita attesa del prodotto interno lordo che le stime prima di Ue e industriali (ma anche di Intesa Sanpaolo) e poi dello stesso governo hanno abbassato dall’iniziale 1% allo 0,5-0,6%, e di fronte a una disoccupazione che ha toccato il suo massimo storico, che conclusioni vanno desunte sulla presunta ripresa in atto?
La domanda è stata posta a Mario Deaglio, economista, ordinario di economia internazionale all’Università di Torino, editorialista de La Stampa e curatore del recente volume “Fili d’erba, fili di ripresa. XVIII Rapporto sull’economia globale e l’Italia”, edito da Guerini e associati. «Direi che ci sono dei segnali di ripresa – risponde -. Quelli che erano dei fili sotto la neve stanno venendo fuori e stanno crescendo. La direzione è quella giusta, ma la velocità è più difficile da prevedere. Dipende da più fattori che noi non controlliamo, anche e soprattutto di tipo internazionale. Due su tutte, in questo momento: la Cina che rallenta e la situazione di incertezza in Ucraina, che potrebbe avere degli effetti sulle importazioni russe di prodotti italiani».
Giuseppe Russo, economista che dirige Step ricerche, società di studi economici applicati, e uno degli autori del rapporto citato, avverte che il vero discrimine lo faranno gli investimenti. «Se mi chiede se c’è una ripresa, la risposta è sì. È in atto una ripresa, ma che avviene con un tasso di investimenti netti sul Pil (al netto degli ammortamenti, ndr) che è sceso dal 6% prima della crisi a poco più di zero nel 2013. Bisogna quindi distinguere tra una ripresa che si registra per motivi statistici e una reale».
I due economisti concordano nel dire che il 2014 non ci si può attendere alcuna accelerazione. «Nel 2014 sarei più contento di una ripresa lenta e solida piuttosto che di un aumento rapido che si rivelasse un fuoco di paglia», commenta Deaglio.
Nelle crisi, aggiunge Giuseppe Russo, ci sono in genere tre fasi: l’investimento all’inizio viene rimandato, poi si disinveste dai settori che si mostrano troppo deboli e si investe in altri settori. Infine gli investimenti riprendono. «Ci abbiamo messo 4 anni ad arrivare a metà del guado – commenta -. Ora c’è una ripresa della domanda, ma è più un rimbalzo statistico. È difficile sostenere che avremo un +2% del Pil per 6 anni, che è quello che servirebbe per recuperare l’occupazione persa. Per farlo dobbiamo tornare a investire 6 punti di Pil all’anno e penso passerà molto tempo». Il problema degli investimenti, sottolinea, «è che per ogni tre euro investito dagli italiani all’estero, solo un euro degli stranieri viene investito in Italia. Questo rileva uno svantaggio nell’investire in Italia». Il pacchetto di Destinazione Italia, aggiunte, non è stato risolutivo.
Quali sono i motivi di questa pur incerta inversione di tendenza? «C’è in primo luogo un effetto ricchezza – risponde Giuseppe Russo -: sono andati bene i mercati finanziari e questo ha fatto bene ai bilanci delle famiglie. In secondo luogo c’è stato un invecchiamento dello stock dei beni durevoli. Per semplificare, una lavastoviglie dopo alcuni anni che non viene sostituita inevitabilmente si rompe e va cambiata. C’è stata poi una discreta ripresa internazionale che ha trainato il made in Italy. Non c’è però ancora stata la crescita delle costruzioni, il cui ciclo ha sempre un ritardo di circa due anni, in negativo e in positivo. Prima bisogna smaltire il magazzino, cioè le case invendute. Se l’espansione prosegue, ci sarà un boost al ciclo».
Nel manifatturiero, continua, «vanno bene gli installatori e i produttori di macchine e impianti all’estero. Poi la moda, l’agroalimentare e il metalmeccanico. I grandi classici italiani, insomma». Il +7% di gennaio? dell’automotive deve invece essere preso senza entusiasmi, perché il confronto è con un inizio del 2013 drammaticamente basso. Inoltre, avverte l’economista, l’export non sarà una panacea, perché se non aumentano gli investimenti prima o poi si fermerà.
Tra gli altri fattori macroeconomici, spiega Russo, un certo contributo è arrivato dallo sblocco di parte dei debiti della Pa e parte potrà arrivare dal fatto che il debito pubblico pesa un po’ meno di due anni fa, per l’abbassamento dello spread. Questo dà qualche margine in più perché lo Stato intervenga.
I provvedimenti presentati mercoledì dal premier Matteo Renzi prevedono un taglio dell’Irpef per 10 miliardi e un taglio dell’Irap del 10% che sarà finanziato con l’aumento della tassazione delle rendite finanziare dal 20 al 26 per cento. Era la misura da fare? Nella scelta tra Irpef e Irap, commenta Deaglio, «probabilmente avrei fatto una terza cosa: sgravi fino a una cifra totale massima per chi fa determinate cose, per esempio, per chi assume. Le prime imprese che fanno domanda vengono soddisfatte, fino al raggiungimento del tetto. Sarebbe stato sicuramente complicato, ma qualsiasi cosa si voglia fare è in realtà complicata. Lo stimolo alla domanda va comunque nella direzione giusta, anche se una quota rilevante di questo stimolo andrà all’estero, sotto forma di consumi di beni importati».
«In questo momento la cosa da scongiurare è che si avviti una deflazione – aggiunge Giuseppe Russo -. Se la deflazione non la combatte la Bce, allora è meglio abbassare le tasse sui redditi bassi. Se intervenisse la Bce, allora sarebbe meglio intervenire sugli investimenti. In tutti i casi, l’abbassamento dell’Irpef avrà un impatto macroeconomico superiore alla diminuzione del 10% dell’Irap. Genererà quasi sicuramente maggiori consumi, mentre questa diminuzione dell’Irap non scatenerà probabilmente gli investimenti».