Troppe tasse, le sigarette elettroniche vanno in fumo

La fine prematura di un boom

Addio sigarette elettroniche. Presto gli svapatori di tutta Italia – così si definiscono i consumatori del nuovo prodotto – rischiano di dover rinunciare al fumo artificiale. Un’eventualità ancora più preoccupante per i circa 5mila addetti del settore che potrebbero perdere il lavoro nel giro di qualche settimana. La giornata cruciale è domani. Il futuro delle E-cig italiane è in mano al Tar del Lazio, che dovrà pronunciarsi sulla nuova accisa imposta dallo Stato. Una tassazione ingiustificata, secondo i produttori di bionde 2.0, destinata a portare rapidamente l’intero comparto al fallimento.

La vicenda è lunga e complessa. E tra decreti e ricorsi legali si trascina avanti dalla scorsa estate. Il calvario dei produttori di sigarette elettroniche inizia lo scorso agosto, quando il governo inserisce nel dl Lavoro e Iva una piccola norma che assimila il fumo elettronico ai tradizionali prodotti del tabacco. L’equazione fiscale prevede l’introduzione di un’accisa pari 58,5 per cento “del prezzo” sull’intera gamma dei prodotti. Dai liquidi necessari per “svapare”, con e senza nicotina, agli accessori delle e-cig: caricabatteria e cavi Usb compresi. 

Lo scorso dicembre le procedure sono state autorizzate da un decreto ministeriale – censurato per il ritardo dalla Corte dei Conti – e dal primo gennaio di quest’anno è entrata in vigore la norma. Intanto le associazioni di categoria accusano le lobby dei tabaccai, colpevoli di aver fatto pressioni in Parlamento per colpire la concorrenza. E provano a correre ai ripari. Parallelamente ai ricorsi al Tar, è partita in rete una campagna di comunicazione per sensibilizzare l’opinione pubblica. Una battaglia mediatica ancora visibile sul sito dell’Anafe Confindustria, l’associazione produttori fumo elettronico, combattuta su twitter a colpi di hashtag #sVapevatelo. 

Nel frattempo si iniziano a tirare le somme. «La tassazione al 58 per cento sulle sigarette elettroniche – spiegano le associazioni di categoria – sta uccidendo un intero settore economico del nostro Paese». La scelta di equiparare fiscalmente fumo tradizionale ed elettronico rischia di essere persino controproducente. Anche perché al momento le aziende sono ferme, in attesa di ulteriori chiarimenti. «Lo Stato ipotizzava entrate per 117 milioni di euro nel 2014 – questa la versione dell’Anafe -. Ad oggi le entrate fiscali sono pari a 0 euro, cui si aggiungono le mancate entrate da Iva, Irpef, Irap, contributi e dazi doganali, derivanti dalla distruzione del mercato». In Parlamento si è cercato invano di trovare una soluzione durante l’approvazione della Legge di Stabilità, ma sul voto favorevole della Commissione Bilancio del Senato si è abbattuta la mannaia del Governo, che ha cancellato con un tratto di penna la riduzione dell’accisa dal maxiemendamento. Un fallimento che si è ripetuto nel decreto Milleproroghe, con cui si è invano tentato di posticipare almeno al mese di giugno l’entrata in vigore dell’imposta di consumo.

E così nel giorno in cui l’Istat fotografa un ulteriore aumento della disoccupazione in Italia, rischiano di andare in fumo altri 5mila posti di lavoro. Stando all’istituto di statistica, a febbraio il numero dei disoccupati ha raggiunto il preoccupante livello del 13 per cento, il più alto dal 1977. Adesso, denunciano i produttori di e-cig, l’inasprimento fiscale potrebbe fare altre vittime. A fronte dei circa 1,5 milioni di consumatori, sono almeno 5mila le persone occupate nel settore. I negozi spuntati come funghi nelle principali città italiane? Rischiano di chiudere i battenti dopo neanche un paio d’anni di attività. Secondo l’Anafe i nuovi esercizi erano 1.500 alla fine del 2012, circa 3.500 un anno più tardi. Ma già ad inizio febbraio 2014 mille di questi avevano chiuso. Il tutto per un fatturato che nel 2012 è stato di circa 350 milioni di euro. 

«Al momento del boom i negozi erano almeno 6mila» racconta Stefano Pozzi, amministratore delegato di New Smoke Network, la società proprietaria del marchio Smokie’s. «Ora si sono ridotti a 2-3mila». Gli occupati? «L’indotto nel momento del boom valeva almeno 15mila persone, ora circa 10mila». Pozzi parla per esperienza personale. «Una boccetta di liquido costava in media 5 euro, ora arriva a 12 euro» racconta. «Le sigarette elettroniche costavano circa 40 euro, ora più di 100». Le conseguenze sul mercato sono evidenti. «Attualmente abbiamo 3 negozi diretti e 200 in affiliazione». Nel momento di massima espansione erano almeno 300. 

Se il Tar del Lazio non darà ragione ai produttori di sigarette elettroniche, la scomparsa sembra inevitabile. A denunciare i rischi non sono solo i diretti interessati, ma una ricerca realizzata pochi giorni fa dal Centro Arcelli per gli studi monetari e finanziari dell’università Luiss di Roma. «La sostenibilità economica del provvedimento – scrivono nero su bianco i ricercatori  – tanto nel breve quanto nel medio-lungo periodo, è molto dubbia». Il solo blocco delle vendite per l’intero mese di gennaio ha comportato mancati ricavi per i produttori di sigarette elettroniche di circa 33 milioni di euro. Ebbene, solo considerando i liquidi, «poiché in assenza di accise la quota del produttore sul prezzo di vendita ammontava a circa il 40 per cento e il nuovo regime fiscale prevede un’imposizione per lo stesso produttore del 58,5 per cento del prezzo di vendita, i produttori si ritroveranno con un debito fiscale pari in media a circa il 146 per cento del loro fatturato dei mesi di gennaio e febbraio 2014».

Ancora peggio le conseguenze sul medio-lungo periodo. Lo scenario prospettato dalla ricerca della Luiss non lascia molto spazio all’ottimismo: «Nel caso di mantenimento dei margini attuali, il settore scomparirebbe perché non sarebbe in grado di sopportare un aumento dei prezzi addirittura pari al 250 per cento». Una prospettiva che gli stessi ricercatori definiscono “devastante” per l’intero comparto.