Internet ci rende veramente migliori?

Internet ci rende veramente migliori?

Devo l’idea di questo articolo alla congiunzione di una lettura un po’ datata e di un post di Leonardo Tondelli. Nel 1938, T.S. Eliot scrisseche l’effetto dei giornali quotidiani di larga diffusione sui loro lettori era di mantenerli «una massa compiacente, piena di pregiudizi e incapace di pensare». Molti intellettuali combatterono la diffusione della nuova stampa — e il flagello che la accompagnava, la pubblicità — poiché solleticava «le risposte emotive più a buon mercato». Nella critica di Eliot e di molti suoi contemporanei, i quotidiani popolari istupidivano le persone, esistevano solo per fare profitti e, ancora peggio, erano assai lontani dal farsi promotori della loro arte e del loro ruolo nella società. Di qui le reazioni di condanna e la sensazione di far parte di un gruppo separato dalla “massa”, per la quale i modernisti ebbero espressioni di disprezzo tanto assoluto da sfiorare l’isteria.

Qualche giorno fa ho letto un post sul blog di Leonardo che notava la raffinatezza raggiunta dall’«arte di farsi largo sulle bacheche»; arte che presuppone non solo l’invenzione di notizie false, ma anche la loro presentazione in modo da attirare pavlovianamente la reazione indignata, il commento, la condivisione. E mi è tornata in mente la rabbia di Eliot davanti alla diffusione dei quotidiani.

Il collegamento tra i due ruota intorno a una domanda: Internet ci rende cittadini e persone migliori? La conclusione a cui sono arrivato non è molto ottimistica.

La domanda è se Internet sia in grado di rendere migliore la nostra società e di migliorare il discorso collettivo, un tema che riguarda essenzialmente il campo dell’informazione. La prima e più facile risposta è che lo sia, perché grazie ad Internet migliora gli strumenti per informarsi e comunicare. Ma se da un lato le notizie sono immediatamente accessibili e gli scambi sono in tempo reale, mi nasce un robusto dubbio su quali siano le notizie a cui accediamo e di che qualità siano i nostri scambi. La mia netta impressione è che la quantità di notizie false — e magari fatte per essere prese sul serio, grazie alla diffusione del mock journalism — distorte e inutili è molto superiore a quella dell’informazione di qualità; che la stragrande maggioranza delle informazioni che ci raggiungono tramite i social network siano poco utili, e che la spinta al commento e all’interazione impulsiva siano il contrario di quello che ci vuole per farsi un’opinione meditata. Allo stesso tempo, il livello del discorso condiviso che internet riesce a promuovere al meglio è desolantemente basso. Davvero abbiamo eretto a nuovo fenomeno culturale l’autoscatto sotto un altro nome, e tutti fanno finta che sia una cosa diversa?

È facile scrollarsi di dosso queste considerazioni dando la colpa all’ignoranza o alla stupidità. Se guardi solo le gallery dei gattini, è peggio per te, perché non sai invece trovare il tempo per qualcosa di migliore. Ma ci sono caratteristiche intrinseche nel mezzo, come diceva Leonardo, che portano in quella direzione: sono le notizie che suscitano indignazione, stupore, raccapriccio e curiosità morbosa che sembrano le più adatte per essere diffuse tramite Internet, un mezzo che privilegia la rapidità e la semplificazione e che non ama le mezze misure.

Internet è fatto per la frammentarietà, la lettura veloce e interrotta. È certamente possibile che, se si è interessati a un tema, si proceda di pagina in pagina e di link in link fino a crearsi una opinione solida, argomentata e sicura. Ma è un’eventualità rara. Quando ho provato ad affrontare la lettura di un testo di, mettiamo, cinquanta pagine su Internet, l’ho trovata una fatica impossibile da sopportare: non solo per i limiti materiali della lettura su schermo, ma anche perché la possibilità di una distrazione, il richiamo di un oceano di intrattenimento leggero a distanza di un click o di una schermata è troppo forte per chi non abbia una volontà da maratoneta (e questo è anche il motivo per cui non credo che il libro, cartaceo o digitale che sia, morirà mai). E diverse persone, come Roberto Casati, vanno dicendo da tempo in modo molto convincente — e con solide pezze d’appoggio — che l’esistenza di un nuovo tipo di intelligenza — quella che avrebbero o starebbero sviluppando i famosi “nativi digitali”, basata appunto sul multitasking — è una grande illusione, buona per qualche entusiasta.

Quindi Internet è il male, un nemico da combattere? Certamente no. Ma quello che si può fare bene con Internet è controbilanciato dalle sue caratteristiche che remano contro la riflessione e l’approfondimento. Sembra che Internet non sarà mai in grado, per come è fatta, di spingere verso il buono la maggioranza dei suoi utenti. La tendenza innata alla distrazione e alla perdita di tempo sembra il tratto umano esaltato al meglio da Internet, che è fatto per distrarsi; se una minoranza riesce a cavarci del buono è merito suo, ma sono convinto che sarebbe certamente riuscita a diventare informata e consapevole anche senza la rete.

Potrei naturalmente sbagliarmi; la storia non si fa con i “se”. Dopotutto, ogni innovazione tecnica di successo porta con sé un cambiamento e, inevitabilmente, genera i propri detrattori. In un passo molto celebre del Fedro, Platone racconta il mito di Theuth, ovvero la critica della parola scritta: se si scrive qualcosa è per non doverla ricordare, e dunque la scrittura minaccia il vero strumento della sapienza, la memoria. Parecchi secoli dopo, l’invenzione della stampa attirò critiche altrettanto dure. Così anche per Internet c’è chi vuole vedere i limiti dello strumento: la moneta cattiva scaccia quella buona, le notizie false ma che suscitano una reazione sembrano sommergere quelle buone e verificate, la nostra esperienza di naviganti rischia di essere sommersa di continuo dall’inutile e dall’irrilevante.

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