«I crolli ci sono stati. E ce ne saranno altri, è inevitabile». L’ammissione della Soprintendenza speciale che gestisce gli scavi di Pompei è sorprendente. Quasi disarmante. Nell’ufficio vicino alla Villa dei Misteri il funzionario Luigi Scaroina affronta l’argomento con un realismo imprevisto. Dalle finestre si intravede uno dei siti archeologici più straordinari al mondo. Un’intera colonia romana seppellita nel 79 d.C. dalle ceneri e dai lapilli del Vesuvio e preservata fino ai nostri giorni. «Ma noi siamo qui proprio per questo. Stiamo lavorando per mettere in sicurezza il 100 per cento dell’antica città».
L’impressione è che a Pompei qualcosa stia veramente cambiando. A partire da chi ci lavora. Da chi nonostante le tante difficoltà – gli errori delle recenti gestioni sono evidenti – sta ottenendo risultati difficili da immaginare. Scaroina è arrivato due anni fa. Di origine molisana, archeologo per lavoro e per passione, insieme ad altri colleghi ha in cura la Regio VII. Una delle nove aree in cui sono divisi gli scavi. Qui sono conservati alcuni dei monumenti più suggestivi del sito: le terme del foro, il tempio della Fortuna Augusta, il lupanare con i suoi inconfondibili affreschi. Negli ultimi mesi ha passato le giornate a monitorare tutta la zona di competenza per prevenire altri crolli. «Me li sono fotografati tutti quei muri – racconta orgoglioso – uno per uno». A metterli in fila ci si troverebbe davanti una parete lunga 18 chilometri.
Eppure al centro delle critiche spesso ci finiscono loro. Architetti e archeologi che dopo dieci anni di studio tra lauree, specializzazioni e dottorati di ricerca hanno la responsabilità di preservare uno dei più importanti patrimoni culturali italiani. Esperti impegnati per dodici ore al giorno, sette giorni su sette. Le ferie che si accumulano da anni, lo stipendio che difficilmente supera i 1.300 euro. «Ma tanto qualsiasi cosa facciamo, sbagliamo» si lamenta Scaroina. Nessuno si nasconde. I primi a conoscere le criticità degli scavi sono loro. E sono anche i primi a denunciare le carenze di personale e le pastoie burocratiche che finiscono per danneggiare il loro operato. «Però siamo motivatissimi, questo lo scriva» si raccomanda l’archeologo. Perché per chi ha scelto questa professione, lavorare a Pompei è il sogno di una vita. «Sentiamo l’orgoglio e l’onore di gestire e custodire questo incredibile sito».
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La rinascita degli scavi è affidata a loro. Sono i protagonisti del Grande Progetto Pompei, l’intervento straordinario voluto due anni fa dal governo per rilanciare il sito archeologico e mettere in sicurezza gli oltre 1500 edifici conservati, tra domus e monumenti. È un investimento di oltre cento milioni di euro in parte provenienti da finanziamenti europei. Proprio in questi giorni si sta insediando in Campania la squadra del direttore generale del progetto, il generale dei carabinieri Giovanni Nistri. Con lui c’è uno staff di una ventina di esperti che collaborerà con la Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Pompei, Ercolano e Stabia. Per tutti, l’obiettivo di salvare il sito che una quindicina di anni fa l’Unesco ha inserito tra i patrimoni dell’umanità.
A un centinaio di metri dagli uffici dei funzionari si apre Porta Marina. I turisti che affollano l’ingresso degli scavi vengono accolti dai venditori ambulanti. Tra calendari, souvenir e generi alimentari di ogni tipo c’è chi prova a piazzare qualche audioguida non ufficiale. Un improbabile centurione romano si propone ai visitatori per una fotoricordo. Oltre la folla, inizia la Pompei moderna. La distanza dall’area archeologica è evidente. Mentre le scolaresche si mettono in coda alla biglietteria, nella piazza davanti al Santuario prosegue da qualche settimana la campagna elettorale. Alla faccia dell’antipolitica, per sostenere i cinque aspiranti sindaci sono state presentate ventiquattro liste. In pratica una ogni mille abitanti. Intanto con buona pace degli scavi, a conquistare l’interesse dei pompeiani è l’ultima polemica sugli apparentamenti politici. E il sorprendente tentativo di alleanza tra Forza Italia e Pd.
A fine aprile le pubblicità elettorali del candidato Franco Grillo, sorridente e circondato da una quindicina di simboli, hanno fatto il giro della rete. Quando la notizia è arrivata ai vertici del Partito democratico qualcuno deve essere sobbalzato sulla sedia. «Appena scoperto che in sede locale si voleva dar vita a un’alleanza larghissima abbiamo immediatamente chiesto spiegazioni al segretario del circolo» racconta oggi Venanzio Carpentieri, segretario provinciale democrat di Napoli. I democrat di Pompei tirano in ballo un laboratorio politico, un’esperienza di confronto servita a elaborare il programma elettorale. Ma le giustificazioni non convincono il segretario. «A quel punto – spiega Carpentieri – abbiamo nominato tre reggenti, attivando le procedure di commissariamento del circolo». Troppo poco il tempo a disposizione per trovare un candidato alternativo e così il Pd si è sfilato. «Alla fine – continua il segretario provinciale – siamo stati obbligati a non presentare il simbolo alle elezioni, esautorando la dirigenza locale».
L’archeologia finisce inevitabilmente in secondo piano. «Nel migliore dei casi, il pompeiano non conosce gli scavi. La colpa è delle amministrazioni che negli anni non hanno mai coinvolto gli abitanti» racconta il candidato sindaco dei Cinque stelle Fabio Liguori. Trentuno anni, ingegnere informatico, con la sua lista sta provando a invertire la tendenza: il programma grillino prevede corsi di formazione sul patrimonio culturale cittadino a tutti i residenti. C’era anche lui qualche domenica fa, quando un migliaio di appassionati si sono dati appuntamento nei presi dell’area archeologica. Una manifestazione simbolica di grande impatto. Le mani nelle mani, i presenti si sono stretti attorno agli scavi formando una catena umana per abbracciare e proteggere l’intero sito. Tra gli organizzatori anche l’architetto Antonio Irlando, presidente dell’associazione Osservatorio Patrimonio Culturale. «In campagna elettorale l’archeologia non c’è» conferma, lui che conosce la realtà di Pompei come pochi. Al netto di qualche inevitabile riferimento, «nei programmi manca qualsiasi attività strategica. Invece gli scavi dovrebbero essere un elemento identitario di questo comune».
Superati i ristoranti per turisti lungo via Roma, si torna indietro di duemila anni. Nella sede della Soprintendenza si analizzano i dettagli del Grande Progetto Pompei. I 105 milioni di euro previsti saranno distribuiti in cinque piani operativi. Il principale è il “Piano delle opere”, è qui che viene investita la maggior parte dei fondi a disposizione, circa 85 milioni di euro. Oltre cinquanta interventi per mettere in sicurezza le 9 Regiones in cui si divide l’area. Alcuni progetti specifici su cinque domus sono già partiti, altri interesseranno le aree non ancora scavate. Già, perché degli oltre 66 ettari del sito, ben 22 restano ancora sotto terra. Sono queste le zone a maggior rischio idrogeologico.
La lista degli interventi prosegue. Sette milioni di euro serviranno per finanziare il piano di valorizzazione e potenziamento dell’offerta ai turisti. Quasi tre milioni saranno investiti per il rafforzamento tecnologico della Soprintendenza. Nuovi computer e attrezzature per i laboratori. Con 1.500 euro è stato messo a bilancio persino l’acquisto di un piccolo drone che permetterà di monitorare le coperture delle domus. Il progetto più suggestivo riguarda però il piano della conoscenza. Un investimento di oltre 8 milioni di euro – attualmente già in fase di gara – per mappare l’intera area e schedare con scansioni laser i due milioni di metri cubi di strutture murarie. Una spesa per il futuro. «Nei prossimi decenni – racconta l’archeologo Scaroina – la documentazione permetterà una gestione informatizzata di tutti gli scavi di Pompei».
L’architetto Irlando non nasconde qualche dubbio. A partire dalla tabella di marcia dei lavori. Per ottenere i fondi necessari, le attività del Grande Progetto Pompei dovranno essere concluse entro il dicembre 2015. «E in questo campo le assicuro che la fretta non è mai una buona consigliera». Quello che preoccupa di più il presidente dell’Osservatorio Patrimonio Culturale, però, è il futuro. «Questo è l’ennesimo intervento straordinario sul sito. Ma il giorno dopo che il progetto sarà concluso, cosa accadrà?». La chiave di lettura è interessante e riguarda un problema più generale: la gestione ordinaria della Cultura in Italia.
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Alla Soprintendenza sono d’accordo con Irlando. «Spesso i nostri interventi sono rallentati da lungaggini burocratiche e amministrative» ammette Scaroina. Il tema è tipicamente italiano, e non riguarda solo Pompei. Qui però le conseguenze possono essere drammatiche. È il caso di uno dei recenti crolli, quello avvenuto lo scorso febbraio nella Regio V. La Soprintendenza aveva segnalato il danno per tempo, ma il muro è franato mentre si attendeva l’intervento di restauro. Alcune procedure sono incredibili. Pochi sanno che durante la seconda guerra mondiale gli scavi di Pompei furono bombardati – e con quali danni – dagli aerei alleati. Ebbene, prima di qualsiasi intervento nelle aree non scavate del sito, oggi i funzionari devono ottenere una bonifica dagli ordigni bellici. E i cani randagi che circolano liberamente per il sito archeologico? Sembra assurdo ma chi gestisce gli scavi non può intervenire. «La competenza è dell’Asl» racconta Scaroina. «Noi li chiamiamo e denunciamo la presenza degli animali, ma il problema non è mai stato risolto».
Alcuni dati sono imbarazzanti. Il secondo sito archeologico più visitato in Italia dopo il Colosseo conta meno di 150 custodi. A fronte dei 66 ettari di estensione e degli oltre 2 milioni e mezzo di visitatori annui, da tempo c’è una cronica carenza del personale preposto ai controlli. I numeri sono impietosi. Divisi su tre turni di lavoro, al netto di ferie e malattie riescono ad operare contemporaneamente al massimo una ventina di custodi. «Senza considerare – racconta l’architetto Irlando – che non sono neppure tutti impegnati nell’area degli scavi. Tra i loro compiti c’è anche il controllo degli ingressi aperti al pubblico». La Soprintendenza ne paga le conseguenze. «Il risultato – racconta Scaroina – è che siamo costretti a tenere chiuse a turno diverse domus». Per non parlare dei danni causati direttamente dai visitatori. Dai graffiti sugli intonaci all’asportazione di piccoli reperti. «Per fortuna – continua Irlando – lungo i percorsi non ci sono molti elementi decorativi da asportare. Ma certo, la mancata percezione del controllo non aiuta a risolvere questa situazione».
Inevitabile una riflessione sulle gestioni meno recenti. E sugli incredibili sprechi di fondi pubblici ancora visibili nell’area degli scavi. Irlando racconta la vicenda delle due biglietterie di cristallo e acciaio costruite davanti all’ingresso di piazza Anfiteatro. «In totale le strutture sono costate oltre quattro milioni di euro, ma dal 2006 non sono mai state aperte al pubblico». Il presidente dell’Osservatorio Patrimonio Culturale cita un magazzino in cemento armato costruito a ridosso dell’area archeologica per 4,9 milioni di euro, e i due depositi generici costati 2,6 milioni di euro. «Io li chiamo i capannoni industriali. Dovevano essere provvisori, ma non sono mai stati rimossi». Eppure forse qualcosa sta davvero cambiando. «Ho incontrato il soprintendente Massimo Osanna, in carica da un mese» racconta l’architetto Irlando. «Mi sembra una persona piena di capacità e buona volontà. Mi auguro con tutto il cuore che anche lui non finisca stritolato dalla macchina burocratica. Per Pompei sarebbe una disgrazia, l’ennesima».