Non c’è niente di più sbagliato che credere alla ripetizione di una storia sempre eguale. Ed è giusto ricordare che fare accostamenti storici, di epoche e personaggi diversi, significa esporsi al rischio di inevitabili forzature. Ma quanto sta avvenendo in questi giorni nel Pd e al congresso della Cgil sulle politiche economiche e sindacali è tutt’altro che nuovo, nella storia della sinistra italiana. Anzi, è la riproposizione, adattata a tempi e personaggi diversi, di una vicenda sin qui inscindibilmente legata alla parabola stessa della sinistra. Una sua maledizione ereditaria. Che nasce dall’irredimibile propensione a dividersi frontalmente su che cosa significhi essere “di sinistra”, come e se sia declinabile con l’essere “riformisti”, invece che antagonisti.
È il pendolo che condannò il neonato Psi a vedere violentemente alternarsi al suo interno leadership riformiste e di sinistra sindacal-massimalista, a ogni congresso di inizio Novecento. È la ragione per la quale, quando nel 1932 morì, povero in esilio antifascista, il più grande dei socialisti riformisti, Filippo Turati, Palmiro Togliatti scrisse un articolo su Lo Stato Operaio, in cui affermò che era stato «il più corrotto, il più spregevole, il più ripugnante tra tutti gli uomini della sinistra». Il tanto venerato Antonio Gramsci non era da meno, quando scriveva che non bisognava esitare a dare «del porco» al socialismo riformista.
Il punto di fondo, che ovviamente i protagonisti attuali della sinistra e del sindacato negherebbero, è sempre lo stesso. C’è una leadership che a un certo punto della storia si forma sull’idea che occorrano riforme coraggiose e realistiche, che tengano cioè conto delle circostanze date e non del presunto obiettivo di costruire l’Eden in terra. E c’è chi di fronte a questo sente violare un credo essenziale, un’identità irrinunciabile della sinistra, per i quali non conta il gradualismo rispetto alle condizioni economiche e finanziarie interne e internazionali, ma conta al contrario chiedere l’impossibile, battersi per l’utopia, erigere tra la propria fede ideale e chi cerca faticosamente di operare nella difficile realtà una muraglia, fatta di irte scomuniche e laceranti divisioni.
A questo riflesso condizionato si aggiunge poi il problema – anch’esso puntualmente ricorrente – per il quale c’è sempre qualcuno che utopicamente si sente ancor più a sinistra, di chi pur da sinistra critica come «arresa alla destra» una leadership riformista.
Eccoci al paradosso attuale. Praticamente metà del Pd, se sommiamo i vecchi gruppi dirigenti territoriali e i gruppi parlamentari figli delle primarie bersaniane del dicembre 2012, tace ma acconsente in cuor suo alla sferza a Renzi riservata da Susanna Camusso sulla tribuna congressuale di Rimini. Non è forzatura dirlo: quando la leader Cgil ha accusato il premier di prevaricare la democrazia credendosi autosufficiente, al di là del ristretto cerchio renziano i leader storici del Pd hanno taciuto. Al massimo, con un sorridente D’Alema hanno dato un buffetto alla Camusso rimproverandola di non aver parlato «anche» di quanto di buono Renzi stia facendo. Come se quell’«anche» potesse pareggiare la scomunica.
Ma dopodiché alla sferza da sinistra della Camusso a Renzi viene riservata una frusta da sinistra altrettanto energica, rivolta alla segretaria della Cgil dal leader della Fiom Landini, che accusa anch’egli la Cgil camussiana dello stesso difetto da questa ravvisato in Renzi: la violazione insopportabile di regole essenziali del confronto democratico. E altrettanto radicale, ancor più da sinistra, è l’accusa portata anche alla minoranza Cgil dalla pattuglia guidata da Cremaschi, che accusa la sinistra di perdersi ancora in minutaglie come contratti e rappresentanza, quando si tratta di costruire alleanze continentali per ripudiare il debito e respingere il capitalismo, fallito ma sempre in sella.
Si potrà dire che la dialettica violenta tra riformismo e massimalismo non ha impedito alla sinistra italiana di percorrere una sua lunga storia, di avvicinamento pima e di esercizio concreto poi della capacità di governo, in una democrazia instabile e «di mezzo mercato» qual è l’Italia. Verissimo. Ma ogni volta che il conflitto riesplode duramente, sia la sinistra sia l’Italia fanno insieme un passo indietro, se è la sinistra che governa. Oggi, siamo esattamente in queste condizioni.
Per far passare il decreto Poletti sull’allentamento di oneri e vincoli del tempo determinato e apprendistato, Renzi è dovuto ricorrere a una doppia fiducia alle Camere, pur avendo accettato modifiche essenziali, da parte del Pd cigiellino rispetto al testo originario, solo in parte ridimensionate. Ciò che motiva il no di Landini alla Camusso è l’accordo interconfederale che rende esigibili i contratti, con tanto di sanzioni a carico dei rappresentanti sindacali che assumono in azienda atteggiamenti ostili all’adempimento di contratti votati dalla maggioranza dei lavoratori. La prima delle quattro proposte “alternative” rispetto a Renzi, avanzata dalla Camusso al congresso di Rimini, è di smontare dalle fondamenta la riforma delle pensioni, tornando a prepensionamenti di massa. Ancor oggi, il gap tra contributi raccolti e trattamenti previdenziali erogati è di circa 40 miliardi di euro l’anno, ma alla leader Cgil aggravare questo peso a carico della fiscalità generale tornando ad abbassare l’età pensionabile sembra cosa buona e giusta, tale da far ripartire meglio l’Italia.
Guardiamoci negli occhi. Ognuno nel Pd, nella Cgil e più a sinistra, ha pieno diritto di giocare la parte che crede. Personalmente, resto convinto di una ricetta diversa da tutti loro, molto più centrata su tagli di spesa e di tasse. Ma quando la sinistra governa, arrivare a sperare in cuor proprio che se Grillo supera Renzi alle europee non è poi un gran male perché così Renzi è costretto a darsi una regolata, significa non avere la minima idea dei guai che continuano a gravare sul nostro Paese. L’Ocse ha appena abbassato la crescita attesa degli Usa, Giappone, Cina, Russia e Ue. Stiamo continuando a perdere produttività. A marzo, l’indice dei consumi Confcommercio è ancora sceso rispetto a febbraio, e segna meno 2,1% rispetto a un già disastroso 2013.
Non lo diciamo per aiutare Renzi, perché sta a lui fare il suo mestiere e capire che ci sono anche tante critiche fondate, al suo operato. È pensando al Paese, che da semplici osservatori rivolgiamo al Pd l’invito di pensarci non una ma mille volte, prima di riabbandonarsi a quella sua pulsione ricorrente di sparare alle spalle a ogni leader che appaia non diretta espressione dell’immane vischio storico della Ditta, come la chiama Bersani. È un istinto che già tante volte ha portato la sinistra alla sconfitta, e l’Italia ancor più indietro.